Vado spesso in Canada per formarmi e specializzarmi sui più moderni orientamenti nella Afasiologia…ma è da segnalare il fatto che in quelle Università, in quelle Biblioteche molti dei testi che mi hanno “formato” e talora illuminato sono di 60 anni fa…dunque rivediamo il termine “moderno” quando si parla di Afasiologia Italiana. Non voglio aprire una discussione sui contributi della neuropsicologia italiana o sui livelli della formazione offerti dall’Università…piuttosto voglio riprendere il tema dell’Ospedale come primo luogo di accoglienza e “cura” della persona con Afasia. In fondo è li’ che comincia la storia …
Secondo Hoffmann, un autore di 40 anni fa che risulterebbe scabroso se mostrato durante una lezione di un qualsiasi corso per operatori sanitari che agiscono nel campo della neurologia italiana, i pazienti con ictus non piacciono e addirittura sono odiosi al personale medico e infermieristico perche’ disconfermano il loro ruolo di curanti. Infatti il loro danno “visibile” (rispetto all’infarto in cui il danno rimane ma non si vede) è ineludibile, ovvio. Ciò che è in gioco sono la curabilità e il potere medico. Anche quando c’e’ un recupero nel paziente con ictus, questo non sembra ridurre il pessimismo perche’ è spontaneo, non indotto, non è il risultato di un intervento medico (da cui la mancanza di therapeutical rewards).
E’ come se il recupero spontaneo fosse meno oggettivo di uno indotto, dunque nella realtà è preferibile che il paziente sia “made better” piuttosto che “get better” .
C’è una generale indifferenza vs il pz con ictus anche perche’ questo manca delle caratteristiche associate al trattamento della malattia acuta (è tutto piu’ lento!). Inoltre manca di interesse diagnostico, e poi c’e’ la questione del turn over riferito al timetable, come se ci fosse un tacito accordo tra lo staff rispetto a quando dimettere (time appropriatness) il pz e questo causa un emotional timetable (scadenzario)…si crea impazienza e insofferenza vs il pz che viene riconosciuto non come un vero malato ma quasi come un abusivo che occupa un posto letto.
A questo punto si potrebbe pensare che, almeno nei reparti di neurologia, l’ictus susciti ancora un po ‘di interesse perche’ almeno dal punto di vista diagnostico potrebbe servire per tarare i propri strumenti diagnostici ma questo si diceva 50 anni fa…e se pensiamo ai centri di riabilitazione la situazione cambia leggermente. Lì si crede un po’ di piu’ all’utilità potenziale di un intervento (non si parla dei pazienti come di “GORK” …ammalati senza speranza) ma in ogni caso è sempre come se il malato valesse ai tuoi occhi nella misura in cui ti consente di scoprire/verificare che il tuo intervento vale qualcosa!
Il trattamento negli ospedali, anche qui da noi, è work e not patient-oriented cioe’ lui deve prestarsi a fare cio’ che gli viene detto prima di ogni altra cosa (e nessuno si interessa dei suoi obiettivi che spesso vengono considerati divergenti o “incongrui” o “irreali” comunque sia mal posti). Addirittura mi è capitato recentemente di leggere su un testo italiano sul “trattamento della afasia” che un certo questionario ha il limite di rilevare la percezione soggettiva del paziente e dei parenti!!!! Una roba raccapricciante, tenuto conto dell’importanza della validazione sociale in ambito di interventi riabilitativi. Il mondo è andato avanti ma qualcuno è rimasto indietro, purtroppo per i pazienti e le famiglie.
In aggiunta e chiaramente manca l’apprezzamento del lavoro reciproco fra le varie figure professionali, lo staff medico ignora cosa succeda a un pz con ictus dopo 6 mesi e in genere non sa’ cosa deve fare nello specifico per facilitare il recupero, si preoccupa piu’ del caring piuttosto che di capire i problemi legati all’essere del pz stesso. E soprattutto vede il periodo peggiore dal punto di vista delle sue performance e sulla base di questa osservazione cementa la sua convizione che “niente può essere fatto” (problema della umpredictability and uncertantly of convalescence)
Inoltre, siccome il pz con ictus, se afasico, spesso non puo’ comunicare, lo staff fatica a prendere il suo ruolo, a immedesimarsi, non riuscendo cosi’ a inquadrare la sua condizione e realizzando quindi lo “spread” per cui l’aspetto della sua disabilità viene a prevalere su tutto (goffmann dice che su pochi presupposti fai tante valutazioni basandosi su altri aspetti).
Spesso lo staff patisce la mancanza di motivazione del pz (dovuta peraltro ad una impossibilità di attivare la motivazione interna per cui reagiscono solo a stimolazioni esterne). In realtà c’e’ da considerare che il pz e’ sempre in bilico tra il modello medico che lo vuole del tutto passivo e quello riab che lo vuole attivo. E poi il pz con ictus ha difficoltà ad abbandonare il ruolo di “malato” visto che non guarisce e non si comporta come lo staff vorrebbe …Dunque cosa fa’ lo staff? Adotta varie strategie per dissociarsi dal problema e vari comportamenti che adesso sarebbe troppo lungo descrivere.
Tutto ciò è solo un accenno; in realtà c’e’ da dire molto di piu’ ad esempio sulla significanza simbolica dell’ictus sulle persone, sull’idea che i pz stessi si fanno circa l’efficacia delle operazioni che svolgiamo su di loro, su come si sviluppano le speranze irrealistiche, sulle caratteristiche personali di ogni pz che spingono a capire in un certo modo cosa viene detto loro (c’e’ un meccanismo interno, una sorta di percezione selettiva vs i messaggi incoraggianti), su come tutto cio’ impatti sul loro coinvolgimento nella terapia…ecc.ecc.
Riflettere su tutto questo con gli strumenti della filosofia, della antropologia e dell’etica è il compito delle Medical Humanities. Se qualcuno fosse interessato potremmo costituire un piccolo gruppo di studio fondato sulla metodologia problem based e riservarci un incontro di approfondimento ogni tanto su specifici temi ad es. su cultura, salute e malattia, la gestione del dolore, problemi etici legati alla pratica medica, la capacità di comunicare, medicina narrativa, religione e medicina, l’esperienza di malattia e gli atteggiamenti dei medici, il percorso dei pazienti, il rapporto medico-paziente, la divisione del lavoro, le parole in medicina.
L’ictus e il nichilismo terapeutico
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Alessandra, come sempre riesci a scrivere tantissime cose e tutte importanti. E’ proprio come tu dici, ancora ricordo con esattezza ciò che hai descritto rispetto al personale medico. Per quanto riguarda la possibilità di creare un gruppo di confronto, sai che a me interessa, sai anche che non abito a Genova. ciao