Quando arrivo di fronte ad un/a paziente ricoverato/a, per una visita di controllo, capita spesso che alla mia prima, generica domanda: “Allora, come va?”, il parente mi risponda: “Me lo dica lei!”. Come se la mia domanda fosse stata “Come funziona, oggi, il suo meccanismo?” mentre io volevo sapere come si sentivano entrambi, sballottati in quel caos di emozioni, sentimenti e dubbi che si attraversano durante una degenza. Comincia dunque subito la difficoltà di comunicare, quando le posizioni sono così – apparentemente – distanti. La persona proiettata in un mondo in cui la “performatività” e il “funzionamento” sono sotto costante e ansiosa osservazione, e la mia prospettiva allargata che vede l’oggi come uno dei milioni di momenti biografici di quella certa famiglia.
E a volte i diversi vocabolari, mentali ed emotivi, rendono particolarmente difficile avvicinarsi. Ci vorrebbe un glossario, un traduttore cui ognuno di noi possa ricorrere, per capire a cosa esattamente si sta riferendo l’Altro quando dice “star meglio”, “guarire”, “percorso”.
O di fronte a certe domande complesse, che mi sento fare spesso da colleghe e familiari: “quello che ho fatto fino a questo momento ha avuto un senso o non è servito a niente?”
Questa incertezza, questo continuo dubbio sul nostro effettivo spazio di intervento, sul come muoversi, sull’aiutare piuttosto che sul continuare a provarci, sulle strategie di adottare, sugli esperti da contattare, sui centri da frequentare…sui silenzi che non riusciamo a reggere, sulla rabbia che proviamo verso noi stessi e verso l’afasia …tutto cio’ ci rende ancora piu’ impazienti, e fa’ diventare anche noi – come diceva giustamente Maria Luisa Gava – “disabili comunicativi”…non sappiamo piu’ cosa farcene di tutte le nostre abilità linguistiche, di uno strumento in noi ancora perfettamente accordato ma apparentemente insufficiente quando vogliamo relazionarci con chi invece lo ha visto diventare inaccessibile
A questo punto dobbiamo capire cosa ci disturba e affrontare il malessere che è dentro di noi e non solo nell’altro…vivere il disorientamento fino in fondo per recuperare la lucidità che vogliamo mettere a disposizione …
Personalmente, come operatrice della riabilitazione non sono riuscita a capire davvero cosa fosse utile fare “durante” la seduta , quale strategia fosse piu’ utile adottare, quale modalità di apprendimento la persona tendesse ad adottare naturalmente fino a quando non ho avuto l’occasione di vivere accanto alle persone con afasia in altri contesti, de-contestualizzati rispetto allo spazio riabilitativo…
Il cambiamento del luogo della Relazione è stato per me fondamentale. Anche il setting del gruppo di auto-aiuto a un certo punto mi è sembrato limitante…occorreva giocare con gli elementi dello spazio, spostare le sedie, le nostre posizioni rispetto agli arredi, rompere il cerchio…da questa esigenza sono nati i laboratori teatrali. Ma adesso, dopo venti anni di esperienza, sono tornata alla conversazione come spazio naturale della relazione d’aiuto, grazie alla formazione acquisita in Canada.
E, ieri, per la prima volta in studio, di fronte a un paziente che sbadigliava copiosamente, ho proposto “Ma vuole mica un caffè”? e ci siamo spostati in cucina, seduti al bancone, continuando a parlare del problema che stavamo affrontando in quel momento ed tutto era così naturale e fluido, nonostante l’afasia, da convincermi ancora di più che è la Terapia che deve andare incontro alla vita, non viceversa
Slow Life e Logopedia
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Salve,
l’ho pensato tante volte anche io ….”la terapia incontro alla vita e non viceversa” …
In queste ultime settimane avrei voluto uscire fuori da quei 2 metri per 2 metri dello studio dove partecipo come tirocinante logopedista…e andare a passeggiare col paziente e comunicare con lui fuori dove c’era la vita, il sole, gli altri…
Ho sentito spesso un moto di rivolta interno ma che dovevo controllare perché li non si poteva fare differentemente….mi sentivo prigioniera io…come in un ghetto…se lo era per me… lo è anche per loro???!!!
Io penso proprio di sì. Dicono che la Logopedia sia “un passaporto per l’umanità” ma secondo me lo è incidentalmente, quando il terapista abbandona per un attimo i protocolli e si comporta come in una conversazione naturale, nel momento in cui si rilassa e torna partner comunicativo. Quando va a cercare la relazione e non la performance. Circoscrivere l’incontro con l’altro a una relazione sbilanciata nella quale io pongo le domande e tu provi a trovare le risposte, non credo proprio che agisca sugli aspetti motivazionali, su quella spinta incredibile che Lordat definiva Forza Vitale…