“Le situazioni che si presentano in un servizio riabilitativo, definibili in gran parte come difficili situazioni esistenziali, correlate ad una patologia cronica, per certi aspetti non risolvibile (…) sono quelle che ognuno vive dentro di se’: la rabbia, il rifiuto del male, le soluzioni miracolistiche” (L. Del Carlo). La frase di De Carlo ci riporta al punto centrale delle patologie croniche…il fatto che vengono messi in gioco elementi di elevata complessità…sono situazioni esistenziali…l’afasia è una condizione di vita. Dal mio punto di vista fra noi logopedisti (che stiamo nei Reparti ospedalieri e negli ambulatori e non nei Congressi scientifici), si dovrebbe cominciare a parlare di teorie, di modelli terapeutici . Vorrei che fosse chiaro che stiamo parlando di persone, persone che vivono una delle condizioni piu’ crudeli che si possono immaginare e che i modelli e le teorie non sono orpelli, lussi inutili, ma punti di partenza fondamentali per affrontare la complessità…chi è quest’uomo o questa donna che ho davanti? Come posso accedere al suo mondo? E’ un mondo diverso dal nostro? Il problema è complesso, dobbiamo porci tante domande per sperare di trovare qualche risposta …e sopratutto dobbiamo imparare ad ascoltare i nostri pazienti e i loro familiari.
Mi chiedo quale spazio abbia, in questo percorso, la letteratura disponibile in italiano…vengono riportati casi di studio, riguardanti magari il recupero di un particolare aspetto deficitario del linguaggio ma si tratta di esperienze raccontate troppo genericamente, non esistono studi longitudinali che ci facciano capire quali fasi abbia attraversato il paziente e dunque come sia realmente avvenuto il percorso di recupero. Inoltre, la letteratura non si è mai occupata di aspetti metodologici in realtà fondamentali, quando il logopedista deve vedere il paziente, per quante volte, su quali aspetti deve lavorare..in genere nei servizi si segue il paziente un’ora o due alla settimana il che richiede molto materiale, molte idee, molte certezze su come condurre il tutto e soprattutto modificarlo in itinere. Poiche’ cio’ che viene fatto non è stato descritto ne’ validato è difficile che venga replicato da qualcun altro e cosi’ crolla uno degli assiomi fondamentali della scientificità…la riproducibilità (nel dettaglio). Nella psicologia sperimentale è stato fatto un maggior tentativo di replicare i metodi…nel ns caso no. La terapia di Schuell, la piu’ praticata in Italia, sembra replicata nei vari ambulatori come stimolazione generica e aspecifica ma anche in questo caso, non essendo mai stato descritto esattamente il processo terapeutico, se non in termini generali, questo non potrà mai essere replicato.
Questioni aperte
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Porsi come problema la validazione dei modelli mi suona un po’ pericoloso. La psicologia speriementale manipola campioni, controlla variabili, appiattisce le differenze, per arrivare alla “validazione”. Ciò può avere un senso se costruiamo teorie dell’intervento, teorie sull’afasia, etc. Ecco perchè quando si va ad un congresso “universitario” dal titolo: “dalla teoria all’intervento”, all’intervento non si arriva mai. Sono loro fuori dal mondo. Hanno bisogno di stare fuori dal mondo per poter essere certi delle loro affermazioni. Sono dei gisutizieri di domande e differenze perennemente orientati su se stessi. Però se parli con loro, sostengono che il loro metodo è ben definito e che non capiscono nulla del tuo.Serie A e serie B.Per ciò parlare di “validazione di modelli”, mi mette sempre un po’ di prurito. Il problema è come ragionare sull’intervento. Il ragionamento è necessario per poter creare nuovi domini di apprendimento, per confrontarsi, per comunicare, ma non può essere che un ragionamento a partire dall’esperienza, e quindi un ragionamento che includa le differenze e quindi tolleri l’incertezza. A tal proposito l’epistemologia della complessità mi pare sia l’universo a cui ci si debba riferire per fare ricerca su interventi che includono persone: APPRENDERE NON VUOL DIRE SOTTRARRE TERRENO ALL’IGNORANZA PER TENDERE ASINTOTICAMENTE ALL’ONNIPOTENZA, BENSI’ TOLLERARE IL PESO DI NUOVE DOMANDE CHE NASCONO E L’INCERTEZZA DELLA CONSAPEVOLEZZA DELLA RELATIVITà DEL PROPRIO PUNTO DI VISTA. Umanizzare, se vogliamo…