Durante un incendio nella foresta, mentre tutti gli animali fuggivano, un colibrì volava in senso contrario con una goccia d’acqua nel becco. “Cosa credi di fare?” gli chiese il leone. “Vado a spegnere l’incendio!” rispose il piccolo volatile. “Con una goccia d’acqua?” disse il leone con un sogghigno di irrisione. Ed il colibrì, proseguendo il volo, rispose:”Io faccio la mia parte, con i mezzi che ho!”.
Alcuni anni fa, nell’ambito del Progetto Laph, organizzai un Convegno sulla Afasia con partecipanti italiani e stranieri e mi sembrò di buon auspicio proiettare questa favola del colibrì all’inizio dell’incontro. Sono passati almeno cinque anni, le persone con cui lavoravo allora non le sento piu’ e mi chiedo se ho continuato a fare la mia parte e quante volte invece sono stata leone cinico e inconcludente. Tutte le volte che in una corsia ho sentito una persona gridare aiuto e ho tirato dritto, sapendo che si trattava di un lamento ripetuto mille volte al giorno, tutte le volte che mi sono chiusa le porte alle spalle di una stanza nella quale una persona viveva momenti difficili mentre io mi incamminavo verso casa pensando “devo smettere in fretta di pensarci”, tutte le volte che non ho fatto ascoltato detto. Tutte quelle volte, quante volte…
E oggi mi chiedo, quale è l’incendio verso il quale sto correndo? E cosa credo di portare nel becco?
Corro verso quella che credo sia una condizione di oppressione, che le persone con afasia vivono spesso e che chissà perché (ma comincio a capirlo) sento molto vicina a me, mancanza di spazio, di riconoscimenti, un adulto mascherato, soffocato, un’identità rubata
Credo che tutto sia iniziato dal disincanto che ho provato all’inizio del lavoro, quando mi sono resa conto dell’assenza del FARMACO, e ho cercato più fantasia e realismo, contaminazione nelle differenze, voci impreviste che hanno messo in discussione la Mitologia dell’Oggettività e la verticalizzazione della Medicina con la sua spaccatura vertiginosa tra chi possiede gli elementi del sapere e sceglie i soggetti su cui applicarli e chi ne è escluso. Contro quella concezione meccanicistica e riduzionistica della vita che permette di intervenire, trapiantare, manipolare ma ascolta poco
Dovremmo cambiare statuto epistemologico al mondo della “cura della afasia”, almeno nel nostro piccolo, ma poi mi domando fino a che punto voglio spingere il cambiamento, quale è il limite che responsabilmente vorrei fissare dal momento che io per prima sono incapace di “stare” sempre e comunque a fianco degli altri, quando “stare” diventa davvero faticoso.
Dico di voler costruire ponti, trovare agganci, disvelare, liberare, mostrare la mia fiducia, riconoscere. Ma se questo ha un prezzo? Continuo a volerlo?
E poi mi vengono in mente le riflessioni di Marita Comerio sul “Vizio d’origine della razionalità scientifica” quando parla della visione autoritaria e dogmatica di una medicina che si è servita ampiamente del metodo riduzionista e ha deciso di sostituire la complessità unitaria e flessibile dell’essere umano, nella concretezza della sua biografia,con uno schema mentale riduttivo della complessità e per questo più facilmente manipolabile.
I nostri protocolli al letto del paziente, le scale di efficacia, i test.. noi operatori come “nuovi inquisitori che leggono il corpo come se fosse un semplice meccanismo, una composizione di pezzi che, se fuori uso, può essere smontata nelle sue parti e rimessa a posto per funzionare bene “. La medicina che proclama la sua oggettività, che separa chi pensa e chi è pensato. Consenso “tra diseguali”, che in fondo è totale affidamento.
Penso tutto questo mentre scendo le scale dell’Istituto, mentre una voce mi chiama “signorina….signorina….” e io mi chiudo la porta alle spalle.
Non conosciamo la nostra altezza fino a che non siamo chiamati ad alzarci , scriveva la Dickinson, ma chi aiuta ME quando infine scopro davvero di cosa sono (in) capace?
Colibrì in crisi di coscienza
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