di Alessandra Tinti
Ci sono giorni in cui la fatica e il dolore per tutti quelli che vedo intorno a me, e per me stessa, rischiano di abbattermi. Salgo le scale dei luoghi di cura in cui presto Consulenza, come fossi una condannata a morte, pensando che è davvero troppo il dolore che tocca ad alcuni di noi…vado chiedendo a tutti gli operatori “Quale è la tua strategia? Come sopravvivi?” ma ovviamente non trovo risposte risolutive.
Dopo tanti anni di lavoro con i pazienti acuti e le loro famiglie, da alcuni anni sto sto sperimentando, come operatrice della Relazione d’Aiuto, il contesto della vecchiaia, quella vera, tosta, spesso abbandonata, senza conforti e indulgenze, piena di lacrime spinte fuori a fatica perchè non esiste la forza manco per quelle, la vecchiaia che risparmia gli occhi che fino alla fine mi pare mantengano la capacità di raccontarci tutto il dolore. Se ti accosti, ti siedi accanto a queste valli di disperazione, ti fai sommergere e resti vicina, con le mani nelle mani, poi però ti senti uno straccio e fai fatica a rialzarti e la tentazione di non sederti più è forte. O ancora, ti sembra di trasformarti tu stessa in una manifestazione di dolore, pensi che una delle sedie sarà presto per te, ti senti già pronta, perché anche tu priva di forze.
Io non ho soluzioni, penso solo che anche questo sia un passaggio della vita. Non credo di avere altra possibilità, per rinnovare la qualità delle mie relazioni di cura, se non riflettere in modo continuativo rispetto alla adeguatezza del mio comportamento ed avere maggiore consapevolezza rispetto alle routine comportamentali che svolgo. La riflessione mi coinvolge totalmente, in ogni esperienza pur drammatica prendo contatto con aspetti di me stessa e dell’altro che normalmente vivo in modo stereotipato. Ma faccio fatica, tanta.
Però allenarsi alla pratica riflessiva non è facile, per questo anni fa ho organizzato un percorso formativo alternativo, mettendo su una Comunità di Pratica di colleghe con le quali ci incontravamo online una volta al mese discutendo di casi clinici. Ho pensato di farlo, non solo perchè è una nuova forma di formazione continua, ma soprattutto perchè avevo bisogno di confrontarmi con altri esseri umani, che vivono situazioni in parte simili, per andare insieme a fondo di questo lavoro che a volte pare un tunnel, se lo guardi ben ben ad occhi aperti.
Con la riflessione rinnoviamo continuamente la relazione di cura che nel ripetersi quotidiano delle nostre azioni potrebbe smarrirsi. Combattiamo il rischio della ripetitività, e dell’abbattimento. La solitudine e la paura di non essere all’altezza, o il semplice dolore. Ma anche quella esperienza è finita, troppo faticosa per tutte, impelagate in una vita caotica.
Io penso che da soli non si combina quasi niente. Anche riflettere da sola, per me è difficile. C’è la riflessione nel corso dell’azione e la riflessione dopo l’azione. Mentre agiamo, ci diamo autoistruzioni. Dice Donald Shon, uno studioso americano, che agiamo come dei bravi musicisti che improvvisano durante una sessione di jazz, ascoltandoci reciprocamente e ascoltando noi stessi/e, sentendo in quale direzione sta andando la musica e di conseguenza adattando il nostro modo di suonare…poi ad esperienza conclusa, riflettiamo su cio’ che è accaduto. Ma cosa accade quando lo spartito che abbiamo davanti è pieno di lacrime, sguardi spaventati, dolori senza fine?
Sarebbe bello poter improvvisare, variando, combinando e ricombinando questo insieme di motivi per trasformali in qualcos’altro ma dopo poco che lavori con la cronicità ti accorgi che NON E’ POSSIBILE, o almeno non nel senso che vorresti tu, e il tuo paziente, e il parente.
Noi professionisti siamo considerati esperti che risolvono problemi applicando nella pratica teorie e tecniche prodotte in campo scientifico. In una situazione concreta, pensiamo di operare con rigore se seguiamo il modello della razionalità tecnica, ma a volte di fronte a situazioni aggrovigliate, caratterizzate da incertezza, disordine e indeterminatezza, i nostri schemi di partenza sono inadeguati.
In molte delle situazioni che vivo adesso, sia professionali, sia personali, il modello della razionalità tecnica non è efficace, nella mia vita non esiste quasi più un mondo conoscibile in modo oggettivo, indipendente dai valori e dai punti di vista miei e di chi mi circonda a e verso il quale io possa assumere un atteggiamento di spettatrice-manipolatrice. Io partecipo alla situazione su cui “devo” intervenire e che cerco di comprendere, spesso con uno stupore annichilito. Emozioni, razionalità, sapere esperto e istinto si mescolano “in un processo transazionale, indeterminato e intrinsecamente sociale”, e io mi comporto piuttosto come un agente-sperimentatore.
Provo a prendere una mano di quella tal persona, provo ad accarezzarle i capelli, provo a fare una domanda, provo a chiedere “Cosa posso fare per te?”, ma quando non sono concentrata, e il più delle volte accade così – almeno nei primi dieci minuti della visita – entro nella stanza con l’impeto di chi “sa/osserverà/deciderà” e solo dopo un po’ mi fermo a considerare se poi è proprio giusto quel che ho deciso, come posso presentarlo senza impormi imperiosamente e che diritti ho di irrompere nella vita di quella persona e allora nel mio corpo accade qualcosa e piano piano riesco a guardare allo stesso individuo che ho appena visitato, notando cose che prima non vedevo, se ha paura – soprattutto, e poi le mille sfumature che ci dicono come si sente davvero e che è così faticoso accogliere nella nostra percezione perché poi dobbiamo ammettere che sappiamo. Sappiamo, non tanto e non solo come dovrà mangiare e bere nei prossimi giorni e quanti esercizi dovrà fare, ma come sta dentro.
Diamine, è così difficile.
Ogni giorno divento meno esperta dell’arte gentile di dimenticare. Non riesco più a scordare gli occhi di nessuno.
Ciao…innanzi tutto grazie per quello che hai scritto. Non è mai banale una relazione di cura, quando si nutre di sguardi. A scuola ci hanno insegnato il significato della parola empatia…ma quanti anni son dovuti passare per gettare qualche timido bagliore di luce sul suo significato…quanti volti e quanti sguardi che non si dimenticano…ma che si dimenticano anche…con leggerezza…consapevoli di fare il proprio mestiere…del privilegio del compito che svolgiamo…della bellezza che continuamente ci regala una giornata di lavoro…qualcuno diceva che non si trova veramente se non quello che davvero si cerca…ecco l’importanza dello sguardo attento…dell’essere in cammino verso…della piena consapevolezza che nessuno può essere felice da solo…che la fiducia è una parola che si deve pronunciare sempre in due. Grazie ancora PINO
Ho incontrato per caso il tuo sito e sono contenta si contenta di aver incontrato qualcosa che mi fa sentire meno sola in questa dimensione speciale e tante volte disperato.Quanta energia ho trovato e quanti spunti di riflessione, grazie Betty