Ascolto mille storie, quando sono in RSA. E alcune si imprimono dentro, più di altre. Ad esempio la Signora che nel ’55, giovane vedova, ha lasciato la figlia ai nonni per andare a Parigi al seguito della famiglia presso cui lavorava … “ricordo ancora il grido della bambina mentre mi chiudevo la porta alle spalle. Ci sono rimasta cinque anni”. Ho pensato al grido che Soutine diceva di avere sentito da piccolo “Una volta ho visto il macellaio del villaggio tagliare il collo di un’oca e il sangue che colava. Avrei voluto gridare, ma il suo fare allegro mi ha chiuso la gola. Da bambino ho fatto un ritratto maldestro del mio maestro, cercavo di liberarmi di quel grido, ma invano. Quando ho dipinto una carcassa di manzo, era sempre lo stesso grido che volevo eliminare. Non ci sono ancora riuscito”.
Quando ascolti le storie delle persone, o li guardi nelle pose scomposte che la malattia e l’incuria degli altri (te compresa) li lasciano, senti molte di queste grida e davvero dopo un po’ non sai più che farci di tutti questi lamenti, queste immagini, ci sei tu, ci sono gli altri, le vittime sono i carnefici, i carnefici sono le vittime, queste nozze sanguinanti di vita e morte, ci passi attraverso, ti chiamano e tu chiami loro e tutto si fonde in un unico grido e non sai piu’ se sei tu a farlo o sono gli altri
PS l’immagine del post è di Bacon
La vita (non) é bella?
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