Come convivere con l’afasia in una società che nega il limite e l’impossibilità, che deride debolezze e insuccessi?
…oggi per produrre interventi di cura con chi è portatore di patologie croniche non basta applicare conoscenze e competenze collaudate (…) E’ richiesto un cambiamento del paradigma entro cui viene considerata e trattata la tradizionale attività rispetto alla malattia e al malato/paziente. (…) Per poter restituire spessore e contenuto agli atti di ciascuno e dei tanti che a vario titolo sono comunque presenti nella situazione di gestione della cronicità o sono chiamati a esserlo, dobbiamo capire meglio gli orientamenti guida, le scelte valoriali, i principi a cui ci si ispira, i quadri di riferimento concettuali. Si tratta di scoprire, più nel senso di rendere visibile che di inventare, una cultura della cronicità che si va delineando nell’ operatività e che va rafforzata e diffusa (…). Ma nelle situazioni in cui si ha a che fare con patologie croniche la cultura sanitaria rivela un’intrinseca debolezza: ovvero quello che costituisce l’asse portante dell’intervento per la cura della malattia acuta che va guarita, risulta solo in parte appropriato e congruente. Diventa necessario adottare un approccio che per molti aspetti si discosta dall’ operatività sanitaria tradizionale che, orientata com’è a debellare la malattia, mal si adatta ad assumerla come dato ineliminabile e permanente (…). Nelle condizioni definibili come” croniche” l’intervento di aiuto non può essere pensato come “cura” nel senso di “guarigione”, perché si ha a che fare con ostacoli (malattie, menomazioni handicap) che non possono essere eliminati: si tratta piuttosto di sostenere delle possibilità/opportunità per le persone di ri-considerarsi e ri-posizionarsi rispetto alla propria esistenza, per aggiustare forme proprie o improprie di adattamento, per realizzare quell’integrazione di contenuti (consci e inconsci) e di significati della malattia che la rendono esperienza vitale. Questa concezione delle cura inscritta non nella categoria della “guarigione” ma in quella del “senso” dell’esistenza, ha delle analogie con la nozione heideggeriana di cura come Sorge che caratterizza la rela zione con l’altro, di cui ci si può prendere cura, o nella forma del besorgen (prendersi cura), che non si cura tanto degli altri quanto delle cose da procurare loro, o in quella autentica del del füsorgen (provvedere) che apre agli altri la possibilità di trovare se stessi offrendo le condizioni per potersi prendere cura di sé. (F. Olivetti Manoukian).