A cura di Alessandra Tinti, Cerchi di Cura
Antonino Pennisi, è stato Direttore del Dipartimento di Scienze Cognitive e della Formazione all’Università di Messina, presso cui è titolare della cattedra di filosofia del linguaggio.
Eminente studioso di linguaggio, ha più volte affrontato il tema della psicopatologia del linguaggio, esplorando l’argomento da un punto di vista storico e filosofico.
Nell’interessante testo dal titolo “Le lingue mutole“, il Prof. Pennisi ricostruisce il “dibattito teorico” sulla afasia e riporta le riflessioni di coloro che in prima persona hanno sperimentato la straordinarietà del linguaggio patologico.
I suoi interessi riguardano prevalentemente la psicopatologia del linguaggio e, più in generale, la relazione tra linguaggio, evoluzione e cognizione umana.
Più di 15 anni fa ci ha concesso questa interessante intervista, che continuiamo a pubblicare per l’enorme valore che riteniamo abbia, in relazione a un tema ancora troppo sconosciuto, nella sua dimensione di questione “esistenziale”
L’idea, a un tempo affascinante e semplicistica, della teoria della comunicazione come controllo delle condizioni di trasmissione delle informazioni, è nata nei laboratori di ricerca degli anni cinquanta sui sistemi di interscambio tra dispositivi meccanici (linee telefoniche, strumenti di codifica per apparati cibernetici e militari, etc.). Le idee di Shannon e Weaver hanno avuto una grande fortuna e si sono rivelate molto utili, ma sono state impropriamente applicate a questioni che nulla hanno a che fare con i problemi e le istanze di partenza della teoria dell’informazione. L’impetuosa avanzata della linguistica strutturale negli anni sessanta-settanta e delle scienze cognitive negli ultimi venti, ha ancor più complicato la situazione perché ci ha fatto credere – illudendoci – che modelli più sofisticati, ma sostanzialmente inalterati, della teoria dell’informazione, potessero spiegare persino la biologia, la psicologia e la filosofia della comunicazione indipendentemente dai parlanti e dalle loro interazioni verbali e cognitive.
Studio da dieci anni le patologie linguistiche proprio perché le considero il territorio elettivo per la comprensione di tutto ciò che le teorie della comunicazione di natura cibernetica o logico-formale, che pure ritengo colgano aspetti importanti della teoria dei linguaggi, non riescono e non riusciranno mai a spiegare. Problemi fondamentali senza i quali non si dà alcuna filosofia del linguaggio. Problemi che ineriscono la natura essenziale della comunicazione, come la coincidenza tra linguaggio ed esistenza (individuale e collettiva), la formazione di modelli di identità attraverso l’interazione con gli altri, la dipendenza tra biologia e ontologia del linguaggio. La filosofia del linguaggio, d’altrocanto, senza l’immersione nell’universo patologico, non riuscirebbe a venire a capo di questi problemi: sconterebbe le stesse cecità cognitive e le stesse incongruenze che si sono manifestate negli approcci meccanicistici della teoria dell’informazione e dei suoi derivati più recenti. Soprattutto entrambi – i modelli filosofici e quelli puramente logico formali (che talvolta coincidono) – sarebbero incapaci di riempire di “carne” gli scheletri delle loro teorie.
Lo studio delle patologie linguistiche e delle concrete esperienze cognitive ed esistenziali dei soggetti che ne sono stati colpiti, ci permettono, infatti, di tradurre e quasi far toccare con mano le questioni che i modelli teorici trattano in maniera astratta e troppo spesso distante dall’operatività, sia descrittiva che empirica (per esempio riabilitativa). Un solo esempio penso possa illustrare bene cosa voglio dire. Sia Heidegger che Wittgenstein – pur in maniere e con argomentazioni completamente differenti – hanno fatto rilevare lo stretto rapporto tra linguaggio ed esistenza. Cosa, tuttavia, voglia dire Heidegger quando definisce il linguaggio la “dimora dell’essere”, o Wittegenstein quando ci ricorda che “i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”, non diventa affatto chiaro sino a quando non si studia l’afasia.
C’è un caso molto importante, non per la sua eccezionalità clinica – trattandosi di un episodio di afasia del tutto normale – ma per la sua “paradigmaticita’”, che ci spiega in termini semplici cosa quei due grandi filosofi abbiano davvero voluto intendere. Si tratta di un avvocato di grande fama e di straordinaria abilità, colpito da afasia a seguito di un evento traumatico: nel momento in cui un proiettile gli colpisce il cranio durante una sparatoria la sua parola sparisce, e con essa se ne va per sempre anche la sua vecchia esistenza.
C’è un modo metaforico con cui si può intendere l’affermazione secondo la quale qualunque grave malattia cambia l’esistenza degli individui. Un tumore, l’AIDS, o qualunque altro grave evento che distrugga la salute induce l’uomo a ripensare la propria esistenza. Ma la perdita irreversibile dell’insieme delle proprie esperienze verbali, del tesoro dei milioni di flussi comunicativi accumulati nei decenni, delle innumerevoli interazioni verbali con gli altri uomini e con tutte le situazioni di applicazione dei nomi alle cose, trasformano la natura del proprio cambiamento di vita da metaforica in letterale. Il nostro soggetto intraprende, come molti altri pazienti, una lunga terapia riabilitativa. Bravissimi medici e terapeuti della riabilitazione lo aiutano con pazienza a riacquisire le parole, i rapporti tra queste e le cose, le strutture sintattiche e lessicali del mondo. Pian piano l’impalcatura formale e la struttura semantica di fondo riprendono un contorno leggibile. Nel giro di qualche mese lo strumento tecnico del linguaggio è di nuovo predisposto. Il soggetto riprende così familiarità col proprio ambiente, ma non lo può ri-abitare: è costretto a ri-farlo di sana pianta. Sino a quando il problema è quello di riattaccare parole e strutture grammaticali a cose e rapporti fra cose, tutto procede in maniera regolare. Quando, tuttavia, i giuochi linguistici si complessificano, quando si tratta, ad esempio, di riprendere il proprio lavoro di avvocato, la nuda struttura dello strumento linguistico non basta più. E non si tratta solamente di difficoltà lessicali: non si tratta cioè di riapprendere le “referenze” perdute, come penserebbe qualche ingenuo semanticista. È, al contrario, un’impossibilità di ricostruire i “giochi linguistici” percorsi, i mille modi con cui le parole si sono intrecciate agli usi e questi alle cose e ai modi di adoperarle nel corso di un’intera esistenza: “dunque il significato è soltanto davvero uso della parola? Non è il modo in cui quest’uso incide sulla vita? Ma il significato della parola non è parte della nostra vita?! … Ebbene il linguaggio incide anche sulla mia vita.
E quel che ‘linguaggio’ significa è un’essenza che consiste di parti eterogenee, e il modo e la maniera in cui incide in modo infinitamente vario” (Wittgenstein, Grammatica filosofica, 29-30). Così, ad esempio, risulta impossibile, al nostro soggetto, imparare ad applicare la funzione linguistica della menzogna, che per un avvocato costituisce la prima condizione di verità. Nonostante tutti gli sforzi che cerca di compiere, egli è, nella nuova esistenza, “cieco” alla nozione di menzogna. La difesa dei clienti richiede molto più della riappropriazione dell’impalcatura strumentale del linguaggio: richiede una re-invenzione di quella particolare “forma di vita” costruita seguendo per anni la casistica, i tribunali, il linguaggio delle sentenze, le bugie degli avvocati, i tranelli verbali dei pubblici ministeri, le reticenze e i silenzi dei testimoni. Il tutto unificato in una mente-linguaggio-esistenza che coincide interamente con l’individualità e la coscienza di un soggetto che è andato pian piano delimitandosi i confini del proprio mondo attraverso il proprio linguaggio.
L’epilogo di quella storia clinica è emblematico. Pur essendo formalmente “guarito” il nostro avvocato smetterà di esercitare quel mestiere. I suoi rapporti con il mondo precedente, con la precedente esistenza, non possono essere ricostruiti. Non gli resta che costruirsi una nuova lingua e con essa una nuova vita. Non migliore o peggiore, ma diversa. E difatti cambieranno – in questo caso in meglio – i rapporti con la moglie e la figlia, col denaro e con gli affetti, con i luoghi e le persone. Insomma una lingua persa non si riapprende ma si costruisce dal nulla. La morale di questo comune caso di afasia è, mi sembra, più che mai evidente.
La comunicazione non è uno scambio di informazioni su cose certe, evidente e universali. È, al contrario, un modo di costruirsi dal nulla i propri oggetti nell’interazione continua coi mondi altrui. Un modo, insomma, di apprendere a delimitare i confini di un’esistenza linguistica solo all’interno della quale qualsiasi cosa può assumere un senso, una verità e un’esistenza.
Concordiamo pienamente con quanto da lei affermato nella “Psicopatologia del linguaggio” (Carocci edizioni, 1998) circa l’assurdità di “ridurre ad una prospettiva esclusivamente biologistica il problema della malattia mentale” e riteniamo che ciò sia altrettanto vero nel caso della afasia verso la quale la neuropsicologia cognitiva – ad esempio – non ha saputo fornire efficaci modelli di intervento. Al contrario, gli studi condotti all’interno di discipline più propriamente umanistiche hanno certamente fornito utili indicazioni … a questo proposito quali contributi ritiene che la linguistica e la filosofia del linguaggio potrebbero ancora dare allo studio delle “deprivazioni verbali”?
A scanso di equivoci vorrei precisare che ritengo fondamentale il problema della componente biologica del linguaggio e, in generale, di tutta quanta la vita cognitiva. Nella prima parte della mia ricerca sulle patologie, dedicata alla sordità e all’afasia, ho cercato di dimostrare che proprio l’aver ignorato la componente motoria, verbale – sia nel senso degli apparati della audio-fonazione sia nel senso delle aree neurali ad essi deputati – ha provocato il distacco della linguistica generale e, ancor più della filosofia del linguaggio, dalla studio della realtà linguistica dei parlanti.
Negli ultimi anni, posteriori alle Lingue mutole (NIS, 1994), interessandomi alla psicopatologia di soggetti schizofrenici e paranoici, ho creduto di capire che il sostrato biologico del linguaggio costituisce, tuttavia, solo la porta d’entrata nella cattedrale della mente: diremmo il requisito specie-specifico che condiziona la filogenesi e l’ontogenesi delle capacità linguistiche, ma lascia completamente aperto il campo della morfogenesi e della sociogenesi del linguaggio (cosa, questa, che aveva già compreso G.B. Vico quasi tre secoli fa).
Al di là delle parole difficili ciò significa che la biologia può, anzi deve, fornirci un quadro chiaro non delle possibilità ma dei limiti fisiologici e psichici che una particolare forma di vita che è quella linguistica (non solo verbale ma anche segnico-manuale) conferisce alla specie umana nel suo complesso. Al di là di questo (che non è poco) la dimensione biologica non può andare, perché la vita psicologica e la vita sociale sono interamente determinati dal modo in cui i giochi linguistici vengono a svolgersi nell’imprevedibile itinerario interazionale dell’esistenza individuale e collettiva. Da questo punto di vista il rapporto fra patologia e filosofia del linguaggio non può mai essere unidirezionale, in nessuno dei due sensi possibili.
Tutto ciò che accade attualmente nei laboratori delle scienze cognitive, delle neuroscienze, ma anche nei gabinetti di audiometria e di fonetica sperimentale, come pure l’immenso impegno dei terapeuti e dei rieducatori clinici al linguaggio, è della massima importanza. Il capitale di esperienze empiriche che ogni giorno essi riversano sulle scrivanie dei ricercatori dovrebbe costituire – a mio parere – la base per le nuove “tavole di verità” dei filosofi. Dal canto suo la filosofia del linguaggio non può limitarsi a classificare e ordinare questi materiali: deve saperli leggere e, soprattutto, dargli unità, sapervi scorgere i principi comuni che, per sua natura, la patologia linguistica e l’approccio clinico, tendono a polverizzare sino al limite dell’inutilizzabilità, non solo teorica, ma anche pratica (cioè, nella fattispecie, “terapeutica”). Insomma i filosofi non potranno mai capire la natura del linguaggio senza osservarne la fenomenologia della sua privazione (o alterazione di qualunque natura), ma i medici non potranno “guarire” i malati sino a quando non capiranno qual è la natura o l’essenza del linguaggio. E questo non possono non dirglielo i filosofi.
Anche qui vorrei fare un esempio, tratto stavolta dalla malattia mentale. Se dovessimo quantificare anche approssimativamente il numero di definizioni e le specie di schizofrenia diagnosticate dall’Ottocento ad oggi arriveremmo facilmente sull’ordine delle centinaia. Si può dire della schizofrenia quello che si dice della teoria dei complementi nella grammatica tradizionale: che ce ne sono tanti quanti sono i casi osservati. A cosa serva questa frantumazione dell’idea clinica di follia non è affatto chiaro, anche perché poi le terapie sono sostanzialmente pochissime e fondamentalmente legate ad una sola idea semplicissima e meccanica: un guasto della “macchina” (con relativa “riparazione” farmacologia nella migliore delle ipotesi). Se gli psichiatri facessero come il filosofo Wittgenstein le cose, probabilmente, andrebbero diversamente. Wittgenstein, che, come pochi sanno, è sempre stato attentissimo ai malati di mente ed amava ascoltarli ore ed ore intrattenendosi con loro sui temi più svariati, temeva della malattia mentale una sola cosa: che il medico non credesse al delirio del malato (cfr. M. Drury, The Danger of words, p. XLIV). Il delirio, infatti, è un perfetto costrutto linguistico-cognitivo che fotografa nel momento in cui emerge in superficie la “modalità d’esistenza” (come la chiamò un altro filosofo-psichiatra allievo di M. Heidegger, L. Binswanger) del soggetto vivente. Questa modalità di esistenza, questa “forma di vita”, nella terminologia di Wittgenstein, non è un errore da cancellare classificandolo tra i diversi “sintomi” di una casistica clinica, ma è il risultato delle mille interrelazioni tra le parole, le cose, i fatti, ricostruiti sulla base di credenze di vita in un’intera esistenza. Per dirla con una battuta, la follia – non diversamente da qualunque altro modo di vivere – è l’insieme di tutti i nostri giuochi linguistici. Da qui la pluralità delle forme, dei linguaggi, la difficoltà di classificare, sostanzialmente, le diverse esistenze degli individui.
Il problema che sorge a questo punto, e che interessa sia il teorico delle lingue sia il medico che deve “guarire” il paziente, è il seguente: esiste sotto questa innegabile pluralità un’unità di fondo, esiste, in altri termini un denominatore comune della follia, così come esiste un denominatore comune di tutte le forme di linguaggio? Domanda cruciale perché se si desse una risposta negativa ne conseguirebbe l’impossibilità di costituire una scienza positiva del linguaggio e una psichiatria realmente operativa (cioè capace di permettere almeno una vita accettabilmente “normale” del soggetto schizofrenico o paranoico). La mia risposta è, infatti, positiva, ma necessita di una premessa.
L’unitarietà della follia (così come l’unitarietà del linguaggio) non può essere colta per mezzo di scorciatoie meccanicistiche ma passa attraverso l’accettazione definitiva e l’effettiva comprensione della nozione di “complessità”. È possibile che per percorrere questa strada occorra molto tempo e molti studi. Ma, come mi ha insegnato il mio maestro ed amico Franco Lo Piparo, in fondo anche la complessità non è che una funzione: una regola applicativa semplice che può spiegare una quantità infinita di comportamenti. Così la sostanza di ogni delirio è l’applicazione conseguente e coerente sino all’estremo di una credenza: è la proiezione sul piano esistenziale di un “principio di verità” fondamentalmente uguale a qualunque altro. Perché allora dovremmo definire “folle” un soggetto che pratica questa attitività cognitiva così comune? La risposta, molto semplificata, è la seguente: perché la credenza schizofrenica o paranoica è l’unica credenza a disposizione del soggetto malato, mentre non lo è del soggetto diciamo “normale”. La follia sarebbe quindi una malattia della complessità e non della razionalità. Il folle non è tale perché non dice cose sensate o non è capace di ragionamenti logici, ma perché conosce un solo tipo di senso o sa applicare un solo tipo di ragionamento. La tragicità della follia, in tutte le sue forme più o meno gravi, compresa la melancolia o i cosiddetti disturbi della personalità, non è allora data dalla mancanza di operatività, dall’incapacità di “calcolo”, ma dall’impossibilità di scelta: cioè, per dirla con Heidegger, la follia è una malattia (una privazione) della libertà. Se questa affermazione è vera la sua utilità va ben oltre il campo della clinica e delle sue applicazioni (che lascio qui immaginare ai tanti specialisti e operatori medici). Se, infatti, la complessità è il criterio distintivo fra “normalità” e “anormalità”, verrebbe da pensare che il criterio di libertà da cui essa scaturisce, e interamente dipende, possa definire bene e per sempre il recinto delle scienze del linguaggio. Interpretazione del tutto errata. Mentre infatti la psicopatologia dl linguaggio è perfettamente individuabile, costituendo il grado zero della complessità, non altrettanto possiamo dire della fisiologia del linguaggio, di cui, al contrario non possiamo testare la sommità, percepirne, insomma, i limiti estremi “in alto”.
La complessità della “normalità” resta, al momento, ancora un mistero, la cui soluzione, probabilmente, dipende dalla natura “aperta”, perché sociale, della funzione-lingua. Siamo al momento in uno stato di stallo delle scienze del linguaggio. La cosa, tuttavia, non costituisce né uno scandalo, né un imbarazzo. In molte scienze “esatte”, infatti, ci troviamo in una situazione simile: continuiamo, cioè, ad operare tramite “funzioni vuote”; funzioni, quindi, che valgono solamente come limite negativo, come certezze di confine, lasciando le restanti possibilità di “calcolo” a confrontarsi con i fatti empirici.
Nei termini della psichiatria filosofica (bergsoniana, nella fattispecie) potremmo dire con E. Minkowski che mentre la follia è certamente la negazione della libertà, la normalità si muove in un confine continuamente instabile tra gli stati “schizoidi” e quelli “sintonici” dell’esistenza ordinaria. Nei primi cerchiamo di affermare la libertà spostando i limiti del nostro linguaggio e cercando continuamente di superare e trasformare l’uso dei segni e delle idee; nei secondi temperiamo la libertà sforzandoci di renderli comprensibili agli altri. Senza la schizoidia avremmo conformismo linguistico-cognitivo, staticità ideativa e impoverimento motivazionale e affettivo; senza gli stati sintonici la libertà decadrebbe per assenza di confini e la creatività si trasformerebbe nel caos: come avviene nei fenomeni di desemantizzazione della schizofrenia profonda.
Questo continuo movimento non ha e non può avere fine: è il processo dialogico entro cui si definisce la condizione umana inscritta per sempre nel circolo specie-specifico del linguaggio a cui, bene o male, siamo condannati.
Come operatori della riabilitazione del linguaggio conosciamo bene, da un punto di vista descrittivo, le caratteristiche del linguaggio afasico, eppure continua a rimanere a noi sconosciuto il “nodo della questione patologica” . Nel nostro operare quotidiano, ad esempio, ci rendiamo conto che i fattori legati alla “motivazione” e all’ “intenzionalità” sembrano assumere un’importanza fondamentale nel recupero delle abilità comunicative, ma il sapere medico e la neuropsicologia non appaiono attrezzati a sufficienza ad affrontare questi aspetti…piuttosto ci sembra tuttora pertinente quanto affermato da Lordat sul rapporto tra “senso intimo e Forza Vitale” … può illustrarci brevemente questo aspetto di cui tratta ne “Le lingue mutole”?
Il “venerabile” J. Lordat, ignoto per decenni ai filosofi e dimenticato dai medici, aveva capito molte cose essenziali dell’afasia: era tuttavia figlio del suo tempo (inizi dell’Ottocento) e parlava con un linguaggio difficilmente comprensibile perché eccessivamente “metafisicizzato”. Ora che è stato pienamente riscoperto e valorizzato (grazie soprattutto all’opera di H. Hécaen e J. Dubois) è venuto il momento di “tradurlo” anche per chi si occupa di scienze cognitive, di neuroscienze e di filosofia del linguaggio. Nelle Lingue mutole ho cercato di farlo ma, probabilmente, con linguaggio ancora troppo accademico. Troppo preoccupato, per esempio, di dire semplicemente che il “senso intimo” non è altro che l’intenzione linguistica, e la “forza vitale” il complesso bio-psichico che ci permette di realizzarla. In altre parole l’afasia romperebbe la sinergia tra l’impulso motivazionale a parlare e la meccanica mentale che trasforma la potenza in atto (psico-motorio). Su questo fatto credo che si sia ancora poco e mal riflettuto.
Anche nella fisiologia del linguaggio gli aspetti motivazionali sono essenziali e completamente ignorati dai costruttori di teorie del linguaggio. Così pochissimi si sono chiesti, ad esempio, perché muta durante l’esistenza dell’individuo la propria spinta a parlare, o come si affina col tempo la “qualità” di questo istinto, esattamente come accade nei diversi stati patologici e psicopatologici. Bisogna considerare la motivazione linguistica l’atto supremo di motivazione alla vita. Come abbiamo detto prima, vita e linguaggio sono le due facce di una stessa moneta. Parlare è un tragico sforzo di superamento, di azione che rompe la resistenza a sintonizzarci col mondo. Quando parliamo tentiamo disperatamente di molare le parole, di ritagliarle esattamente a misura non di ciò che vogliamo dire, che è impossibile, ma a misura di ciò che vogliamo escludere dal nostro dire, che è il proprio dell’attività linguistica, cioè del nostro vivere in un certo particolare modo che crediamo “vero” (o “reale”).
Essere motivati al linguaggio vuol dire, quindi, essere disposti a sfibrarci per delimitare quanto più esattamente possibile, in una scala di cui conosciamo solo i limiti inferiori senza poter mai fissare i superiori, l’articolazione linguistico-esistenziale: le nostre frasi, i nostri discorsi e il loro “modo di incidere” nella nostra esistenza. Alcuni dei cognitivisti contemporanei potrebbero dire che le parole servono invece a rappresentare i concetti. Ma sarebbe improprio: non esiste nulla di mentalmente utilizzabile se non l’insieme dei nostri sforzi per circoscrivere l’ambito d’uso delle parole e ciò che ci inducono a fare, pensare, combinare, agire. Ciò che ci salva dal concepire quest’attività come soggettivistica e/o solipsistica è proprio il contraltare con quella che Lordat chiamava la “forza vitale” e noi diciamo la meccanica mentale. Nessun tentativo di oggettivizzare le scienze del linguaggio può cancellare il pluralismo infinito delle motivazioni.
Ciò che riporta tutto in un campo misurabile e definito è l’insieme, comune a tutta l’umanità parlante, dei propri limiti bio-psichici. In altri termini qualsiasi sforzo per definire l’indefinibile deve fare i conti con le cecità cognitive della specie, le caratteristiche dei sistemi neurali, la struttura degli apparati articolatori, la specificità antropologiche delle culture entro cui tali apparati muovono credenze, aspettative, desideri o illusioni. Cosa succede allora nell’afasia? Per cercare di capire questo tragico interrogativo dobbiamo essere capaci di liberarci, anche in un settore in cui i fattori organici sono fondamentali, di ogni residua metafisica meccanicista.
Non basta dire che l’afasia rompe la sinergia tra intenzioni e mezzi, tra concetti e strumenti per esprimerli. Credo che la grande cautela di Lordat, e forse anche il suo linguaggio troppo sfumato e oscuro, dipendesse dall’aver colto l’inadeguatezza di ogni teoria strumentale del linguaggio. Se con l’afasia si rompesse solo lo strumento, l’afasico non potrebbe più parlare o pensare. Invece, come ci insegnano quotidianamente i migliaia di valorosi rieducatori al linguaggio, l’afasia è un’interruzione radicale dei nostri modi pregressi del vivere.
La rieducazione è (quasi) sempre possibile (il quasi è delimitato, ovviamente, dal tipo di danno subito: nessuno potrà parlare o pensare con l’ablazione di un’enorme parte del cervello!). Essa non consiste solo (o consiste in piccola parte) nel riappropriarsi del mezzo strumentale – e quindi anche del sistema delle referenze, della sintassi, della pragmatica linguistica – ma nella ricostruzione di un mondo intenzionale e perfettamente definito, non nel senso di corrispondente a ciò che è vero, ma di corrispondente a ciò che è per noi articolato e dotato di senso, ovvero “vivibile”, “abitabile”: uno di quelli che i logici chiamerebbero “mondi possibili”.
Capisco che questa ricostruzione del problema può apparire ancora troppo astratta e filosofica e credo che tra i compiti che le scienze della mente e del linguaggio potrebbero trovarsi dinnanzi nei prossimi decenni ci sarà quello di rendere teoricamente praticabile questo genere di ipotesi: farle diventare schemi, diagrammi, modelli e poi azioni. Non è un caso che pionieri delle scienze cognitive del calibro di Winograd, Minsky, Dreyfus, Putnam abbiano deciso di abbandonare l’I.A. e i suoi derivati filosofici per tenere corsi sulla nozione di esser-ci di Heidegger o su quella di “forma di vita” di Wittgenstein. Penso, tuttavia, che i problemi filosofici non siano poi così decisivi e si può ben lasciare ai filosofi il compito di impazzirci dietro.
Più importante mi pare trarre dalle loro riflessioni linee operative concrete per capire e curare correttamente l’afasia. E questo è possibile anche a partire dalle vecchie idee metafisiche di Lordat, rivisitate nel senso che ho cercato di suggerire prima.
Tre consigli, quindi, per chiudere, tratti da un immaginario breviario lordatiano per la cura dell’afasia:
1) non accontentarsi mai dei progressi raggiunti dai pazienti. Proprio perché la natura del linguaggio è “agonistica”, per usare un termine di B. Terracini, ogni riacquisizione non è altro che superamento di resistenze: essere sempre insoddisfatti di quanto si è fatto è la migliore garanzia di star svolgendo un buon lavoro;
2) curare sempre l’articolazione linguistica. Ciò va inteso in tutti i sensi possibili (non solo articolazione vocale, ma frasale-sintattica, lessicale, concettuale, etc.) ed esperito in tutte le situazioni cliniche più disparate, anche quelle che sembrano aver colpito proprio la facoltà di articolazione;
3) non dimenticare mai che articolare è vivere. Cioè non dimenticare che la ricostruzione di un linguaggio (non “del linguaggio”, che non esiste a sé stante) è la ricostruzione di una forma di vita, ed è quindi necessario aver la capacità di far esercitare il paziente in una familiarizzazione col mondo che si sta costruendo ex-novo. E qui bisogna saper esercitare quella che Wittgenstein chiamava “una grammatica che non ha mai fine”: opera di logica serrata, oltrechè di fantasia e creatività.