Qualche mese fa ho avuto l’occasione di condurre un Focus Group con alcuni familiari di pazienti ricoverati presso un Centro di Riabilitazione, in relazione al Tema della Disfagia.
La prima cosa emersa è la difficoltà nel comprendere i termini usati da noi professionisti, quasi tutti hanno dichiarato di aver ricevuto poca o alcuna informazione durante il ricovero in Ospedale, pur presentando il loro caro, turbe della deglutizione. Addirittura qualcuno ha affermato di essersi sentito chiedere dal personale “Sua madre è disfagica o disfasica?” mentre altri hanno sentito usare le stesse parole attribuite al loro parente, ma senza alcuna spiegazione del loro significato.
Qualcuno si è mosso in autonomia cercando su Internet (parola chiave: ictus), ma si dichiara insoddisfatto avendo trovato solo informazioni generiche. Nel gruppo si evidenzia la presenza di un “familiare esperto” (farmacista) ma quel che viene riferito è che il know how del familiare può essere percepito in taluni casi, da parte del personale sanitario, come “problema” perchè probabile fonte di ingerenza.
La sensazione di tutti i partecipanti è che l’intervento sul disturbo disfagico sia caratterizzato da una gestione “caotica” che cambia da reparto in reparto, quasi che la causalità caratterizzasse la possibilità di ricevere un intervento piuttosto di un altro. Tutti segnalano la rarità dell’intervento della Logopedista, in base alla loro esperienza. In un caso è stato lasciato al familiare un foglio di esercizi da far fare al parente, e appeso al letto un foglio di istruzioni (per una alimentazione corretta). A questo parente è poi stato consentito di portare cibo da casa, ma sotto supervisione.
Questo è già un punto di grande criticità, che mostra una insospettata variabilità da centro a centro, tenuto conto che in base ai regolamenti di molti Ospedali i pasti forniti sono controllati dal punto di vista dietetico ed igienico-sanitario per cui è vietato farsi portare da parenti o da amici cibo supplementare, dolci, bevande diverse dall’acqua in quanto ciò potrebbe essere pericoloso per la stessa salute dei degenti. Ad ogni modo è necessario chiedere sempre al medico di reparto il permesso di assumere alimenti diversi dai pasti forniti dall’Ospedale, così come di consumare caffè, thè, cioccolata o altri alimenti prelevati dal bar o dai distributori automatici presenti in vari punti degli Ospedali.
Un’ altra famiglia ha segnalato che l’anziana madre era stata classificata come disfagica ma senza che poi venisse fornita alcuna indicazione in proposito. I familiari dicono di non aver insistito in proposito, non considerando la disfagia una priorità in quel determinato momento del ricovero (si trattava della figlia farmacista, che nel periodo della ospedalizzazione ha evidenziato criticità dal suo punto di vista più gravi, quali ad es. l’ipertensione non sotto controllo, l’abuso di antibiotici per febbricola, l’effettuazione di prelievo di liquor senza consenso e informativa alla famiglia).
In sintesi la sensazione espressa dal gruppo, rispetto alla problematica disfagica presentato dal loro parente, è quella di essere stati fin dall’inizio “alla mercè del sistema”.
Il problema sembra essere sempre lo stesso, la Comunicazione difettosa o assente, che se avviene, avviene per vie traverse, non è mai diretta e orientata a scopi chiari, senza un tempo veramente dedicato (ci è stato raccontato di una collega logopedista che comunicava con la famiglia tramite biglietti lasciati sul comodino accanto al letto).
Le persone ci manifestano un disagio legato al fatto che noi operatori spesso non ci esprimiamo in alcun modo sull’evoluzione e sulle caratteristiche del disturbo del loro caro e, cosa importante da segnalare, la maggior parte di loro ammette che nel momento del ricovero ha sentito un tale carico addosso da non essere in grado di ricevere notizie inerenti le problematiche future il che non giustifica il pressapochismo di alcuni di noi ma spiega in parte le resistenze di chi dovrebbe essere oggetto del percorso di educazione terapeutica.
Il suggerimento importante che ci hanno lasciato è stato quello di “non dare loro troppe informazioni o almeno non tutte insieme, per consentirgli di continuare ad essere costruttivi”
Insomma, impariamo a comunicare.
Ma NOI, sappiamo comunicare?
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