Io non ho mai avuto esperienza diretta di Afasia, nel senso che non ne ho mai sofferto in prima persona. Come Counselor e facilitatrice di gruppi di persone con ictus ho avuto modo di osservare l’enorme varietà di circostanze in cui può colpire un ictus. Le persone reagiscono tutte in modi diversi per cui va da sè che devono essere tante e diversificate le risorse disponibili per supportarle nel complesso processo di rinegoziazione identitaria che le aspetta.
Sono perfettamente d’accordo con David Wasielewski quando dice tutti hanno però la medesima necessità: che il counselor ascolti attentamente la loro storia, ponga domande adeguate e, quando possibile, osservi quale è il contesto sociale entro cui la persona vive con la propria famiglia. In molti di questi incontri si riesce a mantenere un senso di obiettività rispetto al proprio interlocutore, e quindi ad accogliere e analizzare informazioni prima di dispensare consigli o indicazioni. In altre circostanze questo diventa più difficile, quasi una sfida.
E’ proprio Wasielewski a raccontare un’emblematica esperienza.
“Nella nostra ultima riunione di gruppo, una donna di mezza età è stata introdotta dalla sua logopedista. Molti dei suoi sintomi erano evidenti osservandola sedersi e raccontare la sua storia. Era abbastanza giovane, neanche 50 anni, con alcune difficoltà di linguaggio ma in grado di farsi capire. Emiplegica, cammina zoppicando vistosamente e non può usare il braccio sinistro. E’ stata costretta a lasciare il lavoro e non può più seguire il suo hobby preferito, suonare diversi strumenti musicali
David Wasielewski dice che molte della circostanze raccontate dalla donna erano simili alle sue quando ha aderito al gruppo dieci anni fa. Anche lui si è sentito fare le stesse domande, e anche lui provava la stessa rabbia e frustrazione. Nel corso del tempo la sua nuova vita (lui la chiama “esperienza di recupero” ma il termine “recovery” non è facile da tradurre in italiano, è qualcosa di più del recupero di diverso dal termine “guarigione”) gli ha fornito molte risposte alle tante domande. Quando avrò di nuovo l’uso del mio braccio? Quando sarò in grado di tornare a lavorare? Potrò di nuovo essere attivo/a e avere degli hobby?
“Qundo lei comincia a fare domande, mi ricordo improvvisamente la mia prima visita al gruppo di supporto. Come avrei reagito se qualcuno mi avesse fornito le risposte che stavo cercando? Non sarei tornato al lavoro, o a svolgere le mie attività preferite. Questo consiglio sarebbe utile, o no? Ho esitato mentre guardavo svolgersi la conversazione. Era utile tutto ciò che stavo per dire? Potrei semplicemente raccontarle la mia esperienza ed essere soddisfatto di aver ‘fatto il mio lavoro’.
“Mi ricordo che allora, non reggevo nessuna risposta che non soddisfacesse il mio bisogno di credere in un recupero completo. Ricordo anche la saggezza della gente nel gruppo di supporto che non mi ha comunicato brutalmente quella che potrebbe essere definita una “cattiva notizia” circa il mio pieno recupero. Mi hanno permesso di sfogare la mia rabbia e la frustrazione ascoltando questo nuovo sopravvissuto. Questa era la cosa migliore che potevano fare e lo sapevano”.
“Quando penso a me nella prima fase di recupero penso al fatto che ero molto arrabbiato e a quanto loro sono stati pazienti con me. La saggezza della situazione era semplicemente ascoltare e offrire supporto, non fornire risposte. La realtà è che, dopo un ictus, non ci sono risposte sicure. Direste che informare qualcuno con emiplegia grave circa il fatto che non potrà di nuovo suonare il pianoforte o il flauto lo farà star meglio? Probabilmente no. In alcuni casi può anche avere l’effetto opposto. Potrebbe fargli perdere la speranza di una significativa ripresa. Potrebbero non credere più ad alcun miglioramento, e rinunciare”
“Ho capito che, anche con tutta la mia esperienza personale, la vera ‘saggezza’ in quella situazione era semplicemente ascoltare. Molti sopravvissuti, appena usciti dall’ictus, cercano freneticamente le risposte alle loro domande. La saggezza dell’interlocutore che ci è già passato ( il peer) è rendersi conto che le risposte, nella maggior parte dei casi, non esistono. La difficoltà in questa situazione è rendersi conto che la cosa migliore che un counselor può fare è supportare la persona nel fare il proprio percorso indipendentemente da quanto ci voglia o dove porterà”.
Esserci, esserci sempre. Insieme ad amici e parenti.
La Saggezza di (non) dare risposte
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