Ascolta “Dimissioni (non) protette” su Spreaker.
di Alessandra Tinti, Stroke Tutor, Advanced Trainer, Logopedista.
Per fare capire la situazione possiamo raccontare un esempio, un esempio tipico di una situazione che io personalmente vivo fin troppo spesso. E dico questo perché se le cose andassero, se i percorsi di cura fossero realizzati come sancito dalla legge, prescritto dalle linee guida…se le dimissioni di una persona con una disabilità fossero davvero dimissioni protette come da politiche sanitarie, beh…non ci sarebbe bisogno di figure come la mia, che intervengono laddove è necessario organizzare il percorso di cura.
Cosa vuol dire? Vuol dire certamente che comunque una situazione di disabilità, verosimilmente cronica (quindi un individuo che ha residuato un serie di difficoltà che possono essere di tipo motorio cognitivo, comunicativo, legato alla difficoltà di alimentarsi), certamente richiede di per sé – data l’elevata complessità – un’organizzazione di interventi che va presidiata con accuratezza. Però in un sistema ideale questa organizzazione dipende dalle strutture, dall’istituzione.
Quindi non puoi essere dimesso da un centro di riabilitazione dopo due mesi di lavoro, con una quantità di problematiche non ancora inserite all’interno di un percorso di cura.
Quindi, con una problematica alimentare che non è ancora ben certificata rispetto alla alimentazione la persona disfagica segue; con un strano susseguirsi di eventi all’interno della fase di ricovero di cui non vi è traccia nella documentazione, ma nella nella anedottica della famiglia.
Famiglia che non viene resa assolutamente edotta circa quel devono fare per garantire, prima di tutto la sicurezza dei loro cari una volta tornata a casa.
E mi riferisco a situazioni di persone che dopo due mesi di mancato intervento riabilitativo per una serie di co-morbilità cliniche, arriva a casa con magari un letto, certamente e prescritto fornito dalla ASL, con anche un sollevatore, ma nessuna educazione terapeutica al familiare, che non è in grado di capire neanche come le problematiche motorie, articolari, muscolari della persona sono talmente gravi da pregiudicare qualunque possibilità di recupero futuro e determinando una condizione, una sintomatologia dolorosa, difficilissima da gestire, e quindi una serie di errori di cui il sistema si fa responsabile e che poi diciamo il Tutor, il Coach deve piano piano cercare di dipanare, di mettere in ordine dal punto di vista delle priorità. Tutte cose che la legge stabilisce devono essere fatte e che prendono il nome di “dimissione protetta” – prima della dimissione.
Non può, un paziente essere dimesso con la notizia ferale data dal medico di reparto per cui “Guardi, se fosse mia madre la porterei in Instituto“…aldilà di questo che certamente ha degli effetti devastanti sulla psiche di un familiare che invece vuole provarci…ma poi – nel momento in cui tu sai che stai restituendo la persona al suo domicilio – non fai assolutamente niente, se non prescrivere il letto.
Ecco, queste sono cose che io vivo come Stroke tutor troppo spesso e che dal mio punto di vista gridano vendetta per cui è molto difficile, al momento attuale, svolgere questo tipo di attività perché devi fronteggiare un carico di frustrazione e direi di “franca rabbia” perché tu ti trovi Familiari devastati dalla necessità di fronteggiare, senza strumenti, senza Educazione. Quasi che la struttura di provenienza si sentisse totalmente de-responsabilizzata. “Io ti ho dato l’indicazione di mettere la persona in una casa di ricovero, se così non vuoi fare, allora io non intervengo più in niente. Non ti do indicazione, non vengo a vedere la casa. Non ti dico come dovrà essere posizionata nel letto. Non ti dico esattamente come deve mangiare. Non ti metto in condizioni di farlo questo tentativo, tentativo che è legittimo.
Perché non si può non capire che una figlia, un figlio, un coniuge, hanno bisogno di provare prima di cedere e delegare per l’intera esistenza della persona, appunto la vita di una persona amata, ad altri.
Considerato che questa delega, spesso non è stata ripagata da grandi soddisfazioni. Quindi insomma è un argomento delicatissimo, al quale secondo me bisognerebbe dedicare molta più attenzione perché si tratta spesso di parole.
Dimissione protetta, in molti casi è soltanto una parola scritta su un foglio. E questo, dal mio punto di vista, è drammatico.
Sono d’accordo, sia per la mia esperienza professionale che per quella familiare. Manca completamente una visione globale, in grado di comprendere la complessità delle situazioni vissute dai familiari ma anche dagli operatori/trici sociosanitari/e che intervengono a domicilio. Per anni ho parlato professionalmente del modello sociale della disabilità, che ci ha mostrato come sia la società a “disabilitare” le persone, ma l’ho capito davvero a fondo quando mia sorella ed io abbiamo dovuto gestire la complessità data dalla demenza multinfartuale con cui nostra made ha vissuto per otto anni. Paradossalmente il grosso dei problemi derivava proprio dalla mancanza di capacità di gestione della situazione da parte del sistema, dei servizi, di chi avrebbe dovuto sapere come guidarci e come evitare sovrapposizioni, intoppi, documentazione inutile, perdite di tempo e di energia. Servirebbe affrontare questi temi, servirebbe la capacità e il coraggio di mettere in discussione modelli obsoleti, che non tengono conto della realtà vissuta dalle famiglie e dalle persone in stato di necessità. Servirebbe anche capire come la società sia cambiata, e cambi in continuazione. Servirebbe adattare le risposte a persone che nel 2022 sono diverse, diverse perché le consapevolezze, i bisogni, le conseguenze del COVID, le risorse disponibili sui social media e tanti altri fattori creano nuovi bisogni, nuovi desideri e nuove consapevolezze cui il sistema, per come è strutturato, non sa dare risposte e, cosa gravissima, non sembra interessato a darne.