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Dario Fo nello spot di pubblicità Progresso per AITA Federazione
Dario Fo utilizza il Grammelot per sostenere l’A.IT.A. Federazione nella nuova campagna pubblicitaria patrocinata da Pubblicità Progresso. Su Facebook alcuni amiciesperti (veri, perchè familiari) discute dell’opportunità o meno di utilizzare un linguaggio teatrale per mimare una condizione di vita e le opinioni sono diverse. Ma quello che mi colpisce in pubblicità come queste non è tanto la performance attoriale (come sempre Fo è bravissimo e riesce a dare una visione di uno dei mille modi di essere afasico senza sbavature) quanto il registro che si è scelto dal punto di vista delle emozioni che la pubblicità stessa vuole sollecitare. Le informazioni scritte vengono presentate nel silenzio e su sfondo nero e il loro contenuto è fortemente connotato di tragicità. L’idea che mi sembra rimanga nella testa della gente è che l’afasia è qualcosa di irreversibile nella sua drammaticità (cit. dal testo della pubblicità “questo era solo grammelot, l’afasia è per sempre“) e soprattutto che il problema è il prodotto di un difetto biologico, una malattia, una caratteristica dell’individuo, qualcosa che sta dentro, una condizione patologica che risulta in una tragedia personale (cit. “l’afasia compromette l’uso del linguaggio, comunicare con il resto del mondo puo’ diventare impossibile”) mentre nella logica del modello sociale o se si vuole, in una lettura decostruzionista, l’afasia, come altre disabilità, è costruita artificialmente e non puo’ essere né localizzata né spiegata esclusivamente sulla base di una compromissione dei meccanismi cerebrali; l’afasia non è un organo, un tumore, un corpo estraneo che puo’ essere rimosso dalla persona ed esaminato, una malattia che necessita di cure o atteggiamenti paternalistici che spesso determinano l’instaurarsi di atteggiamenti e relazioni di dipendenza.
Altro aspetto da considerare è il fatto che le persone afasiche non rappresentano un gruppo omogeneo: la disabilità è influenzata da fattori legati alla classe sociale, la razza, il genere, l’età. Questi aspetti possono attenuare o incrementare l’esperienza di discriminazione e oppressione. Di conseguenza, In realtà la distinzione tra “avere l’afasia” e “essere” una persona con afasia e’ essenziale. Pur capendo che le intenzioni di pubblicità del genere sono nobili , si finisce – secondo me – per fare un torto alla “mission” come spesso accade quando si parla di disabilità sui media. In genere chi porta avanti questa visione, tenta di stimolare nell’altro sentimenti di comprensione e pena e di mostrare la vulnerabilità dell’altro cui un contesto associativo riesce invece a dare accoglienza. Ora, è vero che le associazioni sono fondamentali perché in esse si può’ cominciare a sviluppare nuovamente un senso di appartenenza al genere umano, dopo alcune esperienze di esclusione sociale che direi quasi tutte le persone afasiche vivono nella fase di cronicità. Ma io penso che non abbia senso una promozione delle persone operata con facilitazioni unilaterali dagli esiti demagogici ma scollegate dalla effettiva qualificazione del soggetto.
Mi riferisco al fatto che se usiamo un certo linguaggio, attiviamo determinate operazioni mentali, mentre se ne usiamo un altro, empowerizzante, il discorso cambia. Non è in discussione la complessità della condizione di vita della persona con afasia, che è assolutamente enorme, quanto piuttosto l’immagine di fragilità irreversibile che si viene e a costruire su questa complessità. Come aiutare l’altro ad immaginare una diversa Qualità di Vita se i presupposti sono tragici e dipendono unicamente da me afasico/a o dalla fortuna di trovare un gruppo di pari che mi accoglie?
Io penso che dobbiamo smetterla di parlare delle persone con Afasia come di “malati” e dobbiamo renderci conto che aiutare le persone a socializzare non basta se nel frattempo non si lavora a diffondere l’idea che la persona vive male, se afasica, soprattuto laddove c’è un insufficiente condensato di azione sociale. E’ una questione riguardante i diritti umani: tutte le persone afasiche vivono la disabilità come esperienza di limitazione sociale, dovuta ad ambienti “non supportivi” come a nozioni discutibili di intelligenza e competenza sociale, alla mancata diffusione di “rampe comunicative” e materiali accessibili o alla ancora troppo diffusa “intolleranza” dei più rispetto a coloro che presentano una disabilità cognitiva. Siamo noi che creiamo disabilità e “costruiamo” incompetenza:
- Quando pensiamo di sapere NOI cosa è bene per la persona con Afasia e la mettiamo al servizio dei NOSTRI obiettivi [condurre uno studio neuropsicologico, raccogliere dati, attivare un gruppo, provare una metodologia, confermare il nostro ruolo di “esperti”]
- Quando chiediamo qualcosa che riguarda la persona con Afasia non alla persona stessa ma al parente o comunque ad un’altra persona
- Quando non includiamo persone con afasia nel gruppo dirigente della nostra organizzazione
- Quando includiamo persone con afasia nel gruppo dirigente della nostra organizzazione ma non modifichiamo nulla nella gestione dei compiti dello stesso gruppo [riunioni, metodi di comunicazione, uso di tecnologie] per garantire che la partecipazione sia reale ed effettiva
- Quando trattiamo le persone con Afasia come individui particolarmente bisognosi del nostro accudimento e non in grado di provvedere a se stessi autonomamente [es. adducendo la motivazione che “si stancano”, “si emozionano”…fino allo scontatissimo e terribile “prendono freddo”]
- Quando adottiamo comportamenti e atteggiamenti che rovinano l’immagine sociale della Persona con Afasia (es. parlarle a voce piu’ alta del normale, fare finta di capire, cambiare discorso, banalizzare la sua situazione pensando di “alleggerire” il tono della
conversazione…)
Ci sono barriere che condizionano il percorso di reintegrazione sociale di una persona con afasia, ben più drammaticamente della afasia stessa. Sostenere lo sviluppo di politiche di supporto all’handicap che riducono le possibilità di contatto con persone disabili, non favorire politiche di inclusione nel mainstreaming, parlando di equità ma impedendo di fatto l’integrazione, fondamentalmente non credendo davvero nelle potenzialità dell’altro che viene visto come “una persona che estremo bisogno di aiuto” quando la prima cosa da fare è rivedere le nostre categorie mentali.
Le distinzioni abilità/disabilità, costruite sulla base di una conoscenza “scientifica” andrebbero de-costruite cosi’ come i concetti binari tipo soggettività /oggettività e disabilità/menomazione. Approcci che ripensano alla categoria dell’Umano non centrandosi ad esempio sulla nozione di “homo faber”, sull’idea di perfettibilità e su una razionalità orientata alla produzione, ma piuttosto a partire da teorie legate ai temi dell’identità e all’appartenenza a gruppi. Barnes, teorico del modello sociale, afferma che x la maggior parte il pregiudizio discriminante è legato alla percezione di “improduttività” e di corpo non performante…io mi chiedo se è possibile, nella nostra società, arrivare ad una nozione di integrazione sociale che non dipende dall’inclusione delle persone con disabilità nelle attività produttive.
Occorre un linguaggio che non classifichi le persone come “altro” (deviante dal normale e dalla piena umanità). Questo linguaggio si potrebbe costruire dando voce a coloro che non parlano la lingua della scienza (es, persone afasiche e familiari) e in Italia è ancora difficilissimo.
Perchè nessuno di noi è estraneo a questo discorso, le pratiche e le istituzioni che dividono il sano dal normale, l’umano dal non umano, creano le nostre stesse condizioni di vita, strutturano i contesti entro i quali noi ci muoviamo, lavoriamo, entriamo in relazione gli uni con gli altri
In questo senso possiamo pensare alla disabilità non come evento dato da un punto di vista biologico, ma socialmente costruito a partire da una realtà biologica e forse anche come oggetto creato per esercitare il potere…ad esempio una ideologia e utile a giustificare una asimmetria nella allocazione delle risorse.
La distribuzione di risorse che produce e mantiene il modo in cui noi pensiamo le persone normali e anormali, abili e dis-abili modella le vite e il sé di coloro che appartengono a questo mondo: persone disabili, i loro amici non disabili, i loro familiari, personale socio sanitario, ecc.
Le pratiche di divisione e classificazione, che sono alla base dell ’aversive Disablism, sembrano quasi inevitabili, perche’ mezzo principale tramite cui individualizzare le persone, che arrivano a comprendere e conoscere se stesse proprio grazie a questa oggettivazione degli “altri” (i disabili fisici i pazzi, i ritardati, i sordi…) e soprattutto governarle come ci ha spiegato Foucault
I “soggetti disabili” sono stati, secondo questa prospettiva, progressivamente costituiti (in modo reale e materiale) tramite una molteplicità di organismi, forze, energie, desideri e pensieri.
In altre parole, quando a seguito di un incidente o di una malattia c’ è una menomazione, oltre ai cambiamenti vissuti dalla persona (come sperimenta il proprio corpo, cosa è o non è in grado di fare fisicamente) ci sono dei cambiamenti nel modo in cui il suo corpo viene interpretato socialmente, nei significati che gli vengono attribuiti e negli spazi che gli vengono assegnati per fare ed essere.
Questo sistema opera come un’unità aderendo a standard comuni di giudizio normalizzatore, che penetra tutti i livelli della società ed esamina, giudica, sradica l’a-normalita e prescrive metodi appropriati tramite i quali riabilitare gli individui.
Come è possibile operare un cambiamento? Si cambiano i rapporti di forza cambiando i concetti di norma, normalità, normalizzazione. Occorre cambiare il concetto di normalità,
In sintesi secondo me, per ridurre l’adversive disablism che alberga in ciascuno di noi, ci vuole: Piu’ contatto tra le persone, afasiche e non afasiche – Piu’ cura del linguaggio – Piu’ controllo delle proprie dinamiche di pregiudizio.
Comunicare con il resto del mondo, se afasici, non è affatto impossibile. Però il mondo deve imparare come si fa.
Sempre consci del fatto che la nostra visione di un mondo in cui tutti i membri della società sono trattati equamente rimane e rimarrà sempre solo una visione