Questo passaggio dalla certezza alla complessità, permette finalmente di pensare in modo critico al modello su cui noi logopedisti siamo stati formati e che ha condizionato profondamente le nostre prassi nel momento in cui mettiamo in atto pratiche di cura per persone con disabilità.
Si tratta di un modello basato su una concezione deterministica e positivista della cura, che vede la Disabilità come un problema della persona, causato direttamente da malattie, traumi o altre condizioni di salute, che necessitano di assistenza medica sotto forma di trattamento individuale da parte di professionisti. La gestione della Disabilità mira alla loro cura o all’adattamento da parte dell’individuo e a un cambiamento comportamentale. L’assistenza medica è vista come la questione prioritaria. Quindi:
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La malattia e’ un dato esclusivamente biologico, che si puo’ esprimere attraverso parametri obiettivi e quantificabili: la disfunzione è causato da una cosa, un oggetto, un dato di realtà incontrovertibile, questa cosa è l’idea che abbiamo della patologia (fisica, mentale, sociale), una struttura tangibile, esprimibile tramite indicazioni e parametri oggetti, qualcosa che sta nella persona la patologia puo’ essere definita solo dall’esperto in grado di cogliere cio’ che sta sotto ai disagi fenotipici apparenti
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L’operazione con cui l’esperto individua la patologia è la diagnosi che sarò seguita dal trattamento adeguato per definione. Il presupposto è che ci sia un percorso razionale dalla Diagnosi alla Cura (ipso facto). L’obiettivo della cura e’ la guarigione
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Le caratteristiche del metodo clinico sono: 1) la semplificazione, cioe’ la riduzione di un fenomeno complesso quale e’ la malattia a un rapporto semplificato di causa-effetto); 2) la predittivita’, in quanto la malattia e’ l’effetto di una causa biologicamente identificabile che si ripresenta con le stesse costanti in soggetti diversi
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Il medico (o il riabilitatore) e’ l’unico esperto del problema della persona, perche’ dotato di specifici strumenti tecnico-scientifici per la diagnosi e la cura
- Caratterizza una condizione, spesso cronica, di vita
- Si esprime attraverso la soggettivita’ di chi la vive
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Coinvolge familiari e caregiver che prestano cure, attenzione, tempo, risorse fisiche e mentali
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Richiede specifiche competenze relazionali da parte degli operatori e nuove modalita’ di intervento al di la’ di quelle squisitamente mediche e dunque implica l’intervento di altre figure professionali, l’assistente sociale, il terapista della riabilitazione, lo psicologo
Penso a quante volte in passato ho utilizzato questo metodo di conoscenza scientifica, sia nella raccolta anamnestica dei sintomi afasici, sia nella valutazione delle performance in corso di valutazione pre-trattamento e di verifica post- trattamento, ricorrendo a modelli teorici di funzionamento normale e patologico del linguaggio e ottenendo cosi’ una conferma alle mie impressioni cliniche. Il modello medico prevede, inoltre, che il terapista del linguaggio, come esperto, cioe’ portatore di specifiche competenze tecniche, sviluppi un intervento riabilitativo sull’afasia, prescindendo dal suo ambiente. Cio’ significa che una volta isolato il disturbo afasico da altre funzioni cognitive eventualmente danneggiate nel corso di una lesione cerebrale e interpretato alla luce dei modelli teorici del funzionamento normale e patologico del linguaggio, il terapista attivera’ un percorso riabilitativo mirato al recupero della funzione o, alternativamente, alla riduzione dell’impatto del deficit linguistico sulla comunicazione attraverso lo sviluppo di strategie di compenso. Le uniche competenze richieste dalla comunita’ scientifica al terapista per impostare un programma riabilitativo, in particolare, per selezionare il candidato ideale per un certo tipo di trattamento, sia questo un training specifico o l’apprendimento di modalita’ di comunicazione alternativa sono le conoscenze teoriche relative all’afasia e alle sue modalita’ di recupero ed esperienza clinica “sul campo”. Ma “trattare” un paziente – come ci ricorda Pennisi – con disabilita’ comunicativa non significa solo agire nei confronti del deficit afasico con razionali e rigorosi strumenti diagnostici e terapeutici, bensi’ da una parte esplorare le competenze potenziali della persona disponibili per il recupero e dall’altra confrontarsi in modo continuativo e, in alcuni casi, per lunghi periodi, con problematiche non specificamente mediche, e con situazioni che esulano dal setting riabilitativo “tradizionale”, ma coinvolgono un contesto relazionale piu’ ampio, familiare e sociale (sappiamo che il recupero dello stroke è condizionato da f
attori neurologici ma anche cognitivi, comportamentali, psicosociali, linguistici) che va studiato entro un modello multifattoriale. Se si ammette una volta per tutte che la riabilitazione dello stroke comincia con la fase di attenzione medica e interventi clinici per poi passare all’analisi dei problemi del paziene e dell’intera famiglia nella gestione della disabilità e termina con il reintegro del paziente nel suo ruolo sociale (per quanto possibile) si intuisce chiaramente come si tratti di un vero e proprio percorso, lungo settimane o anni e che coinvolge diversi attori….un faticoso progetto di vita, nel quale “la relazione” diventa lo spazio naturale dove trovano espressione quelle componenti psicologiche, emotive, sociali e culturali del paziente, che rappresentano insieme a quelle squisitamente cognitive le reali risorse del paziente. Fino a questo momento pero’ nella pratica clinica, l’applicazione del modello medico-scientifico ha favorito l’evitamento della relazione/rapporto con il paziente garantendo cosi’ l’autonomia dei professionisti rispetto al paziente, il quale diventato a sua volta oggetto di osservazione/valutazione dei propri deficit, si e’ lasciato guidare dal sapere dell’esperto.
ASSUNTO DI BASE: L’AFASIA E’ UNA MALATTIA, DUNQUE DEVO GUARIRE E TU MI DEVI CURARE
In conseguenza di questo agire si possono verificare diverse conseguenze pericolose e dannose per il paziente che :
- si sentira’ abbandonato dal medico (non ci sono cure)
- non capira’ se e’ malato (allora perche’ non mi cura) o se e’ qualcosa d’altro che non sa
- si sentira’ un malato a vita perche’ dovra’ fare una terapia che avra’ poco successo in termini di guarigione
- non sa quale malattia lo ha colpito (la demenza, una sindrome amnesica, un malato psichiatrico)
- non conosce il ruolo del logopedista (e’ uno psicologo, un tecnico, un insegnante??)
mentre i familiari si sentiranno esclusi, isolati dal rapporto del medico con il loro caro, incapaci di fornire un aiuto adeguato e privi di qualsiasi informazione e formazione per partecipare attivamente al percorso di vita della persona.
e per quanto riguarda gli operatori:
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si sentiranno frustrati di fronte alla limitatezza delle loro competenze, alle richieste e alle aspettative dei pazienti nei riguardi della cura, da cio’ ne puo’ derivare demotivazione per il proprio operato. Le difficolta’ e gli insuccessi dell’approccio medico all’afasia vengono quindi vissute dagli operatori con un grave senso di impotenza. Il piu’ delle volte da un iniziale entusiasmo subentra un progressivo disimpegno verso le persone, tendono a trattarli in modo distaccato, meccanico, maturando un senso di inutilita’ del proprio lavoro. Tutto cio’ puo’ portare l’operatore a mettere in discussione il proprio impegno, la propria creativita’ e disponibilita’
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I clinici soffriranno di un metodo di conoscenza proprio della loro formazione che enfatizza la diagnosi e la cura della malattia secondo le leggi di causa ed effetto e i clinici scopriranno le loro notevoli difficolta’ a comunicare con una persona afasica nella raccolta anamnestica, nella descrizione dei sintomi, nel colloquio clinico (sara’ in grado di comprendere, sono sicuro di aver capito cio’ che sta dicendo?) e si sentiranno impotenti di fronte alle difficolta’ comunicative della persona senza avere conoscenze sulle eventuali strategie di comunicazione che altri operatori possono mettere in atto senza pero’ che vi sia un rapporto di lavoro stretto tra i diversi professionisti
e la comunita’:
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non conosce il problema afasia ne’ dal punto di vista medico, ne’ le sue conseguenze sociali
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non potra’ attivare le sue risorse (non le conosce) per gestire la persona afasica, ne’ la sua famiglia
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confondera’ la persona afasica con un demente o una persona con deficit intellettivi
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non potra’ attivare le sue risorse (non le conosce) per gestire la persona afasica, consapevolezza consistera’ nel fatto che il suo operato non partecipera’ ad una guarigione, ma aiutera’ a migliorare la qualita’ di vita’ della persona a dei familiari. La concretezza consistera’ nel porsi degli obiettivi da raggiungere, un programma stabilito che potra’ aiutarlo, indirettamente, a migliorare la qualita’ della relazione.
Questo nuovo modello (Engel, 1980) della salute e della malattia emerso nella cultura scientifica e nel mondo sanitario negli ultimi definisce la salute come equilibrio nella persona tra fattori non solo biologici, ma anche psicologici e sociali e la malattia come una rottura non di un singolo fattore, ma dell’equilibrio di un intero sistema. Conseguentemente l’ apparire di una malattia comporta modificazioni a ogni livello del sistema Cosi’ un ictus e’ certamente un danno tissutale, ma le sue limitazioni funzionali, per esempio la perdita del linguaggio, sono responsabili di un interessamento che dal sistema dei tessuti va a quello delle persone, della famiglia, della comunita’ e della societa’ (un altro concetto alla base del modello riguarda la definizione di malattia come alterazione dei meccanismi omeostatici che rende l’organismo incapace di adattarsi alle condizioni ambientali.) Secondo questa visione l’obiettivo dell’intervento terapeutico e’ l’attenuazione delle perturbazioni e il ripristino di un nuovo equilibrio dell’organismo, non la funzione.
In sintesi, secondo questo modello:
ti dai partecipanti all’interazione, sono circostanziati entro confini locali. La vita umana è estrinsecazione di senso intersoggettivo, per quanto segnato dall’oggettività delle patologie o circostanze avverse.
In questo senso, la Relazione d’aiuto, l’intervento di noi operatori sarà essenzialmente di Osservazione della rete che circonda il paziente e guida per il suo rafforzamento nei punti critici, ha le caratteristiche della CIRCOLARITA’ e dell’APERTURA…è un intervento che va’ rivisto e rifondato in itinere, imparando nel corso del processo stesso…questo approccio ci consente di considerare suscettibile di “aggiustamenti” qualsiasi percorso di vita, anche quello di una persona con grave deficit di linguaggio magari in un contesto di cronicità…cioe’ colui cui non è piu’ proponibile un intervento tradizionale di tipo sanitario o comunque sulla funzione..(in fondo se ci pensiamo è cio’ che è sempre avvenuto naturalmente nella che si è sempre naturalmente un po’ discostata dal modello medico, dal processo lineare ACCERTAMENTO-TERAPIA…in Riabilitazione l’accertamento è piu’ protratto nel tempo e viene completato di pari passo con il trattamento. I componenti del team adottano un approccio empirico, in cui la seduta terapeutica è di per se’ una modalità di valutazione: non c’e’ una distinzione netta tra diagnosi, prescrizione e terapia…la condizione diagnostica inoltre varia costantemente per peggioramenti, naturale guarigione o risposta alla terapia…). Inoltre questo approccio non rende conto di aspetti reali, importanti come la fatica e il dolore…
Nonostante tutto ciò, gli strumenti valutativi e riabilitativi che molti di noi continuano ad usare, derivano dal modello biomedico tradizionale. Ai convegni/corsi/congressi si continua a discettare delle stesse identiche cose di cui si discettava quando io ero studentessa (disurbi del lessico, basi neurali, agrammatismo, gesto, ecc.ecc.) e del resto sarebbe strano che cosi’ non fosse dal momento che i soggetti che parlano sono sempre gli stessi. Ma qui smetto di parlarne per non “tirarmi addosso le contraddizioni di tutti coloro che tengono per maggior peccato il dissentire dagli antichi che il credere le bugie per verità“.
Cara Ale, questo tuo scritto, oltre che molto bello ed interessante è assolutamente da me condiviso. Già in passato ci siamo comunicati la condivisione di una base epistemologica a partire dalle teorie della complessità. In questo scritto hai tracciato tutta una serie di collegamenti riferiti all’afasia,nei diversi livelli (IO, Gruppo o Famiglia, Società/Comunità) che non rappresentano affermazioni, quanto piuttosto ulteriori problematiche operative. Perciò lo trovo arguto ed interessante.Sentendo molto l’auspicabilità dell’azione e dell’inclusione, rispetto alla separazione ed all’intervento tecnico semplificato, ti proporrei un collegamento proprio con quel “fare” su cui abbiamo già da tempo iniziato a conforntarci.Circa il livello della persona afasica, per il momento non aggiungerei altro, oltre quello che già ti ho mandato circa la creazione di luoghi “non esclusivi ma inclusivi di apprendiemnto finalizzati all’azione sociale” (materiale sui gruppi).Circa il livello degli operatori, la frustrazione di cui parli è assolutamente presente. Come già ti dissi ci vedo una domanda di formazione che è esplicita (ma anche implicita su alcune quetioni). Ed allora sorge la domanda che abbiamo in passato affrontato, anche se in modo abbastanza veloce: quale formazione è possibile, collegata all’universo complesso che ci si pone innanzi?Circa la comunità, anche qui recentemente abbiamo aperto un canale di riflessione e propositivamente concreto e possibile: quale azione di sensibilizzazzione basato sulle problematiche complesse e non sulla seprazione tecnica è possibile? Entrambi condividiamo il non luogo dei congressi specialistici come momento più narcisistico dell’esperto più che come informazione accessibile. Ed allora, quell’idea di cui ti parlai (quando ti raccontai di quelle associazioni che mi si presentarano dicendo che si occupano di organizzare eventi), ovvero di “utlizzare l’arte” non solo come terapeia, ma ache come strumento di sensibilizzazzione rivolto alla comunità?