Ovunque si parla di medicina centrata sul paziente, di partecipazione, progettazione partecipata. Ma nella realtà dei fatti siamo spesso arroccati sul nostro piedistallo di “esperti”, ben lontani dal mollare il potere, dal concedere spazio al sapere altrui meno che mai a quello dei nostri pazienti o dei loro familiari. Ma chi si occupa di afasia, prima o poi, è costretto a mettersi in discussione perché l’afasia mette in crisi qualunque certezza, nella persona che ne soffre ma anche in chi afferma di doversene fare carico per “mission”.
Per prima cosa, non si sa bene cosa sia. Certo conosciamo le cause, ovvero sappiamo in quali circostanze e per quali motivi compare nella vita di qualcuno, devastandola. Sappiamo perché , ma non sappiamo come . Come si con-vive con l’afasia? Si cambia? Si è la stessa identica persona, anche quando – in casi di estrema gravità – si può supporre che sia andato perso il linguaggio interno? Ed è davvero possibile perdere il linguaggio interno e rimanere umani? E se questo linguaggio interno in realtà fosse sempre li’ a rappresentarmi una realtà che pero’ non riesco piu’ a condividere con nessuno, chi sono destinato a diventare dopo mesi e mesi di vita su un pianeta divenuto per me cosi’ inospitale? Chi conosce la risposta a queste domande?
Certamente non noi, quelli – come dice M. T. Sarno – “temporaneamente sani”, ben saldi e certi delle nostre capacità dialettiche, ignari di cosa significhi davvero farne a meno. Le risposte le possiedono i protagonisti, le cui storie possono essere raccontate se si sposa l‘approccio narrativo