“At its most arid, modern medicine lacks a metric for qualities such as inner hurt, despair, hope, grief, and moral pain which frequently accompany, and indeed constitute, the illnesses from which people suffer”
(traduzione: nella sua forma più arida, la medicina moderna non ha una unità di misura per leggere aspetti quali la ferita interiore, la disperazione , la speranza , il dolore , e l’afflizione morale che spesso accompagnano , e in effetti costituiscono , le malattie di cui la gente soffre)
Queste parole di Greenhalgh e Hurwitz, pubblicate sul British Medical Journal nel 1999 mi fanno riflettere su una cosa. Lavorando da un certo numero di anni, e sempre operativamente (lo dico perchè a volte quando mi confronto con alcune colleghe, queste sembrano attribuire la particolarità di alcune mie idee ad una scarsa conoscenza del reale ) ho conosciuto ovviamente diversi setting e luoghi di cura.
Come direbbe Goliarda Sapienza, ho conosciuto la società – girando nelle corsie degli ospedali, delle cliniche universitarie, persino delle cliniche psichiatriche (nella sua drammaticità, è un’esperienza che ti cambia profondamente e che paradossalmente ritengo un terapeuta dovrebbe fare in ogni caso) ma è solo da alcuni mesi che mi misuro con l’ambiente di cura per eccellenza, il meno appealing per chi svolge la professione sanitaria con il mito di E.R., e cioè la Casa di Riposo, la Residenza Sanitaria Assistita, quel luogo che prende nomi diversi nelle varie regioni e che ospita cittadini ormai privi di “autonomia sociale”.
I luoghi della Cronicità, i cui piani prendono un nome ( “Mantenimento”) che è già tutto un programma. Li le persone vivono, abitano, e muoiono. Li manteniamo in vita, è un gioco di equilibri, e tutti i giorni ti chiedi che Vita hai confezionato per quella certa persona, con quella tua decisione clinica, quella tua risposta, quella tua mano data o non data.
Sì, è vero. Sono ambienti difficili, penosi – a volte. La vecchiezza, o meglio, ciò che noi ne facciamo, a volte è davvero difficile da reggere emotivamente ma nella fatica, nella difficoltà quotidiana, devo ammettere che percepisco tra gli operatori una armonia di intenti – persino nell’abbruttimento di chi maneggia con poca grazia l’Altro da sé – che nei luoghi più “rigorosamente scientifici” difficilmente ho visto realizzarsi in modo omogeneo.
Voglio dire che si è per forza più essenziali, meno concentrati sul proprio output e a volte persino troppo concreti. Ma la spinta che senti è fortissima, sei sempre alle prese con questioni essenziali, far stare male o meno male quella certa persona, confortarla sapendo che non ci sarà una fine gloriosa, ma una (in)finita serie di momenti nei quali tu cercherai di fare la differenza vendendo a patti con la tua paura di prenderti Responsabilità, il desiderio di erodere sempre più l’autonomia dell’Altro per non correre rischi, la necessità di mediare con tutti e l’impossibilità di delegare ad altri perchè sai che altri, probabilmente, non ci saranno (nelle strutture al momento attuale il personale è pochissimo, sottodimensionato e quel che non fai, difficilmente verrà fatto in un altro momento, da qualcun altro).
E’ come essere messi di fronte al tuo compito morale, continuamente. Nelle piccole cose come in quelle enormi, riguardanti le decisioni finali.
Ma discutere di una persona con i medici, gli infermieri, le infermiere, gli/le OTA/OSS in questi ambienti ha qualcosa di diverso rispetto alle discussioni che ho visto realizzarsi in una sala medica ospedaliera o universitaria.
Quando dico che in questi luoghi la relazione di cura è una relazione più complessa dico una banalità lo so, ed in fondo neanche riesco a spiegarmi. Ma è come se tutti riuscissimo ad ammettere, solo lì, in quella situazione, che i nostri strumenti terapeutici sono difficilmente valutabili in base a parametri puramente oggettivi. La soggettività torna ad avere un ruolo determinante nell’interazione con gli strumenti e le tecniche terapeutiche, condizionando il nostro modo di operare e di parlare di cio’ che facciamo.
Così, spessissimo, partendo dal commentare la crisi di rabbia di una persona ospite della struttura, di una sua ennesima lotta condotta con veemenza per rifiutare un cibo, o un nostro divieto o una qualunque pratica clinica, si finisce per parlare della sofferenza sua e nostra, per svelare cosa pensiamo della morte, della vecchiaia, dei nostri timori, e mi pare che la chiarezza e la frequenza con cui ci si apre, nei corridoi, nelle sale mediche, come nelle cucine, sia impensabile nelle corsie del Dr. Tersilli che ho conosciuto nella mia vita di professionista.
Dove i vari camici bianchi (indistingubili nominalmente, perchè ormai siamo quasi tutti Dottori e Dottoresse, a buon diritto delle leggi che cambiano), sfilano spesso incuranti del loro compito principale, che è salvaguardare il più possibile l’identità della persona nella sua dimensione soggettiva e ambientale. Ecco mi pare che nelle RSA sia più difficile specchiarti nel tuo camice o nel tuo sogno adolescenziale di eroe/eroina, perchè sei circondato da tanti TE vecchi, Grandi Vecchi, ma anche tua madre, tuo padre, che con sguardo appannato ti ricordano chi sei e sarai.
E che non hai molto tempo, per fare e dare. L’indomani torni, ed è passata ‘a livella.
Case di (non troppo) Riposo
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