Fonte: How (not) to be a good patient, Daniel K Sokol (BMJ)
Trad. e adatt. di A. Tinti
Sabato scorso, mentre saltavo in aria, come un salmone, per colpire di testa il gol della vittoria per la squadra di calcio locale, un goffo difensore ha sbattuto la testa contro la mia. L’impatto della sua fronte ha creato un’ammaccatura così profonda e sgradevole sul mio occhio destro che gli altri giocatori, visibilmente impressionati dalla ferita, hanno chiamato un’ambulanza. Quando finalmente è arrivata l’ambulanza, diversi interminabili minuti dopo gli otto minuti previsti per legge, due paramedici sono arrivati, tutti allegri e giulivi, nelle loro tute verdi e gialle. Ero infastidito dalla loro apparente indifferenza per la mia situazione – la possibilità allarmante della morte o della vita futura come vegetale – ma ho raccolto la forza interiore per rispondere alle loro domande: “Come è successo?” “Dove sei stato colpito?” “Dove ti fa male?” e così via. Sono stato caricato in ambulanza e portato in ospedale. L’ambulanza non ha usato la sirena durante il tragitto, il che mi ha fatto arrabbiare ulteriormente. La mia ferita potenzialmente pericolosa per la vita non era abbastanza grave da giustificare la sirena?
Al pronto soccorso un’infermiera mi ha chiesto come mi fossi ferito, dove mi trovassi in quel momento, dove mi ero fatto male, e così via. Poi mi ha lasciato in mezzo alla stanza, ancora sulla carrozzina e con in mano l’impacco di ghiaccio ormai sciolto sulla mia fronte demolita, per 20 minuti. Medici e infermieri passavano senza darmi nemmeno un’occhiata. Mi sono sentito totalmente abbandonato. “Che cavolo sta succedendo?” Alla fine esclamai, nel disperato tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno. Una cupa infermiera emerse da un cubicolo e mi disse di non imprecare. Mi sono scusato, incolpando il mio cattivo umore per l’infortunio. Spinse la carrozzina nel cubicolo vuoto e iniziò il solito interrogatorio: “Com’è successo?” “Dove sei stato colpito?” “Dove ti fa male?” e così via. Ho risposto alle domande come prima. “Sta arrivando il dottore”, mi disse mentre se ne andava.
Sembrava che il dottore avrebbe impiegato un tempo ancora più lungo per apparire rispetto ai paramedici. Quando chiesto all’infermiera le ragioni del ritardo, lei ha risposto: “Ci vorrà un po’”. Dieci minuti dopo non c’era ancora traccia del dottore. Man mano che il dolore peggiorava, iniziai a piagnucolare. Alla fine arrivò un giovane dottore, si scusò abbondantemente per l’attesa e mi iniettò degli antidolorifici. Poi mi ha chiesto come mi fossi fatto male alla testa, dove si è verificato l’impatto, dove mi faceva male e così via. Sopprimendo un crescente senso di frustrazione, ho risposto alle domande esattamente come avevo fatto prima, incapace di comprendere la necessità di un quarto resoconto dell’incidente. Durante l’intero calvario sono stato innegabilmente scontroso, sboccato e di cattivo umore. Quando tornai a casa quella sera mi resi conto che essere un paziente, un buon paziente, è terribilmente difficile.
Le persone spesso discutono di cosa rende un medico buono o cattivo. Un buon medico, ad esempio, deve essere informato, tecnicamente abile, compassionevole, paziente, gentile, degno di fiducia, moralmente sano e un grande comunicatore. Ma quante volte sentiamo parlare del buon paziente? Quasi mai.
Il buon paziente è l’eroe sconosciuto della clinica.
C’è una sorprendente somiglianza tra le virtù del buon medico e quelle del buon paziente. I buoni pazienti sono allo stesso tempo compassionevoli nei confronti dei colleghi e del personale ospedaliero oberato di lavoro, tolleranti nell’attesa del loro turno e nel rispondere a domande frequenti, gentili quando comunicano con gli altri, affidabili quando riferiscono fatti o assumono le loro medicine e, soprattutto, comprendono i limiti e fallibilità della medicina. Ho fallito in quasi tutti questi compiti.
Come pazienti dovremmo sforzarci di emulare coloro che soffrono con un comportamento così nobile e deplorare coloro che, come me, trascurano gli interessi degli altri non appena il gioco si fa un po’ duro. Diderot, l’autore francese del 18° secolo, definì povertà e malattia “quei due grandi esorcisti”.
In altre parole, la vera natura di una persona viene rivelata non quando quella persona sta mangiando uva e sorseggiando champagne in una vasca idromassaggio marmorizzata, ma quando è sotto lo stress della miseria e della cattiva salute.
In quei momenti tutto ciò che rimane è il nucleo stesso di una persona, privo di pretese e superficialità.
Il buon paziente, quindi, incarna il tipo più genuino della bontà umana.