Ammettiamolo, non c’è Congresso Scientifico né Corso di Formazione nel quale non venga nominato una decina di volte la “Cura Centrata sul Paziente” o Person Centered Care.
Sembra quindi chiaro a tutti che nel momento in cui ricoveriamo una Persona, ricoveriamo qualcuno che ha magari una compromissione cognitiva, soffre certamente di una o più patologie ma ha anche una personalità, una biografia, delle relazioni sociali, delle abitudini e dei riti quotidiani (che subito verranno sconvolti dalle esigenze del servizio, spesso prioritarie) e in più, sappiamo tutti (ma il sistema tende a dimenticarlo) che ricoveriamo non un solo individuo ma un intero Corpo Familiare
Quanto tempo dedichiamo ai familiari? Voglio dire…tempo specificamente “dedicato” a loro?
Al contrario, spesso la visita dei parenti viene vissuta da noi operatori come un momento ispettivo.
In uno dei nostri Open Talk con i familiari è venuta fuori l’emblematica esperienza di due sorelle che avvicendandosi al letto della mamma in orari diversi, avevano strategicamente creato un quaderno per scambiarsi informazioni precise su ciò che era successo durante la loro permanenza.
Immagino le occhiate prima inquiete poi irritate di chi magari se le vedeva venire incontro “brandendo” il quaderno per chiedere delucidazioni.
La Cura Centrata sul Paziente spesso è solo retorica.
Mentre si ritiene ovvio che gli operatori, medici, infermieri. OSS e terapisti, prendano nota ogni giorno di tutto ciò che avviene e si scambino ad ogni cambio turno info sullo stato dei singoli pazienti, si ritiene – chissà perché – che i familiari siano meno coinvolti e interessati rispetto a ciò che è avvenuto al loro caro (ha urinato ancora troppo poco? è riuscito/a a mangiare qualcosa? ha dormito o ha dovuto prendere un farmaco? era agitato/a?). Per finire al paradosso: “Mi scusi, ma mi sembra che mia madre da un po’ di tempo abbia le feci troppo liquide”, “Sì, è vero, e infatti stiamo facendo l’esame per sapere se ha una infezione in corso, non si preoccupi, al limite la mettiamo in terapia”.
No, certo li’ per li’ non mi preoccupo. Avete il controllo della situazione. Siete voi gli esperti.
Poi però passano i giorni e nessuno viene a dirmi il risultato dell’esame. Poi vedo comparire una flebo che ieri non c’era. Immagino sia la terapia antibiotica.
Devo andare a chiederlo, e già le vedo le loro facce quando mi avvicino…con il quaderno in mano, pericolosissima nel mio desiderio di condivisione…
Ma per fortuna le cose stanno cambiando, alcuni/e infermieri/e sono davvero in gamba e si ricordano di dirti le cose che hai bisogno di sapere o non ti fanno sentire un verme quando ti avvicini balbettando una domanda come se stessi disturbando il guidatore…e anche i parenti stanno cambiando.
Sono giovani, professionisti. abituati a scontrarsi con la giungla la fuori e spesso motivati a farsi carico di un bel po’ di cose, se può aiutare.
Motivati, determinati.
Ieri, per esempio, sono arrivata in una camera mentre una figlia stava chiedendo all’Infermiera di osservarla mentre spostava suo papà dalla carrozzina al letto, per correggerla se necessario. Vuole portarlo a casa e vuole essere educata su più aspetti possibili.
Lo chiede, per fortuna. E così facendo, ci educa lei, ricordandoci uno dei nostri doveri – spesso disatteso.
L’educazione terapeutica.
Ci vuole meno energia di quella che si usa nelle sale mediche per dire quanto rompipalle sono i familiari o per lamentarsi rispetto al fatto che non hanno ancora capito la situazione del loro caro…
Familiari in Ospedale: istruzioni per l’uso
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