Capita spesso che qualcuno, alla fine di un mio corso mi dica “mi aspettavo qualcosa di più concreto”. E io su queste frasi rifletto parecchio. Penso che a volte concreto significhi, per queste persone, “più semplice” laddove “semplice” significa “immediatamente applicabile in una realtà simile, nelle stesse condizioni e con gli stessi risultati”. Insomma qualcosa tipo “mi aspettavo di uscire con una ricetta in mano!”.
Ma, a parte che anche l’aspirina non garantisce mai lo stesso risultato, è indubbio che i processi in gioco nella terapia non possono seguire la stessa linearità di un farmaco. Posologia e indicazioni generiche magari esistono ma sono molto piu’ complessi e vanno definiti all’interno di quello specifico rapporto terapeutico secondo una metodologia che appunto, nei miei corsi, cerco di illustrare (che poi banalmente è la metodologia dell’intervento in logopedia).
Ma quel che davvero mi fa riflettere è questo “desiderio” di semplificazione. Di ridutte la complessità, che pare evidentemente scomoda – per taluni scomodissima.
“Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. E’ un’ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non sono semplici della semplicità che piacerebbe a noi” (Levi, 1986)
Io certamente in questi anni ho molte volte sbagliato, ricordo ad esempio di avere organizzato un corso per Logopediste nella mia città nel 2000 (“La creatività dell’operatore. Per una ecologia della riabilitazione”), pensando di portare loro contenuti nuovi tipo la Psicologia di Comunità, la Ricerca Intervento di Kurt Levin, ed altri contributi di discipline “altre” che invece hanno suscitato in molte di loro incomprensione, rifiuto e diffidenza.
Io mi avvantaggiavo delle contaminazioni epistemologiche, e allora ritenevo che fosse così per tutti ma solo con il tempo ho capito che non tutti siano disposti o in grado di farlo e infatti quel corso, a mio parere, fu un fallimento pressocchè totale.
Quando ho scoperto il Modello Sociale e sono andata a specializzarmi in Canada, ho pensato ingenuamente che al mio ritorno avrei potuto condividerlo a destra e a manca. E inondavo le mie aule di contenuti nuovi, sollecitazioni, articoli…tutte cose che a me parevano interessanti e suggestive ma che a taluni sembravano “poco concreti”, probabilmente perchè troppo lontani dalle loro conoscenze.
Negli anni successivi ho cercato di porre maggiore attenzione all’aula che avevo davanti e ai percorsi storici e scientifici che avevano determinato la preparazione di quei professionisti. E quindi di tarare i contenuti nuovi che portavo, cercando punti di ancoraggio o tentando di slatentizzare consapevolezze che avrebbero poi spinto quei professionisti a sforzarsi di approcciare cose “diverse” senza ritenerle di default inutili o virtuali. Ma c’è ancora e sempre qualcuno che si alza e dice “mi aspettavo qualcosa di più concreto” o “qualcosa che già non sapessi“, ma credo che in entrambi i casi chi lo dice intenda: “qualcosa di piu’ vicino a me”.
Perchè noi adulti funzioniamo così, come ci dice Kolb: siamo internamente motivati a imparare le cose che ci aiuteranno a far fronte in modo efficace a situazioni di vita reale e quello che io dicevo secondo loro non gli era utile subito. Ritenevano di avere bisogno d’altro, qualcosa di pronto, la Scatola degli Attrezzi.
Perchè in un certo modo di fare terapia si vorrebbe la ricetta, la stessa che lamentiamo richieda il paziente. Qualcosa che mi/lo faccia stare bene, subito. Qualcosa che cancelli cio’ che è successo. In fondo diciamo che i pazienti vogliono l’impossibile ma a volte anche noi operatori facciamo fatica a distaccarci dal “pensiero convenzionale circa la Relazione d’Aiuto, legato al modello medico e quindi a una concezione deterministica/positivistica del darsi da fare per il bene di estranei giudicati in difficoltà. Questo modello è oggi superato sul piano intellettuale. Nessuno si sente più di difenderlo in letteratura, dopo Illich, pur tuttavia è ben radicato nella mentalità intuitiva degli pesatori, dunque tutt’altro che superato” (Fabio Folgheraiter, L’utente che non c’è)
La terapia della afasia e’ un contesto di apprendimento nel senso che è una esperienza nuova rispetto alla quale la persona deve imparare nuovi modo di vivere. Non esistono ricette, se agiamo secondo una prospettica clinica tradizionale “siamo attratti/e dalla semplificazione, entriamo nel problema dell’Altro con l’atteggiamento mentale dl riparare e “curare” ciò che non va, di essere NOI in toto artefici delle cure quando è anche e sopratutto l’individuo, opportunamente supportato e in determinate circostanze, a curare se stesso. Dovremmo quindi imparare a vederci non solo come coloro che sanano o “erogano servizi” ma anche come colui/colei che con la qualità della propria persona e con la propria intenzionalità metodologica, può fungere da stimolatore di risorse nuove, agendo da catalizzatore di interscambi di risorse umane nei circuiti delle reti sociali (formali e informali) della comunità”.
E se queste risorse non ci sono, già pronte, dice ancora Folgheraiter, possiamo accendere delle scintille nelle relazioni.
Il fuoco che ne nascerà ci scalderà tutti
Negli anni successivi ho cercato di porre maggiore attenzione all’aula che avevo davanti e ai percorsi storici e scientifici che avevano determinato la preparazione di quei professionisti. E quindi di tarare i contenuti nuovi che portavo, cercando punti di ancoraggio o tentando di slatentizzare consapevolezze che avrebbero poi spinto quei professionisti a sforzarsi di approcciare cose “diverse” senza ritenerle di default inutili o virtuali. Ma c’è ancora e sempre qualcuno che si alza e dice “mi aspettavo qualcosa di più concreto” o “qualcosa che già non sapessi“, ma credo che in entrambi i casi chi lo dice intenda: “qualcosa di piu’ vicino a me”.
Perchè noi adulti funzioniamo così, come ci dice Kolb: siamo internamente motivati a imparare le cose che ci aiuteranno a far fronte in modo efficace a situazioni di vita reale e quello che io dicevo secondo loro non gli era utile subito. Ritenevano di avere bisogno d’altro, qualcosa di pronto, la Scatola degli Attrezzi.
Perchè in un certo modo di fare terapia si vorrebbe la ricetta, la stessa che lamentiamo richieda il paziente. Qualcosa che mi/lo faccia stare bene, subito. Qualcosa che cancelli cio’ che è successo. In fondo diciamo che i pazienti vogliono l’impossibile ma a volte anche noi operatori facciamo fatica a distaccarci dal “pensiero convenzionale circa la Relazione d’Aiuto, legato al modello medico e quindi a una concezione deterministica/positivistica del darsi da fare per il bene di estranei giudicati in difficoltà. Questo modello è oggi superato sul piano intellettuale. Nessuno si sente più di difenderlo in letteratura, dopo Illich, pur tuttavia è ben radicato nella mentalità intuitiva degli pesatori, dunque tutt’altro che superato” (Fabio Folgheraiter, L’utente che non c’è)
La terapia della afasia e’ un contesto di apprendimento nel senso che è una esperienza nuova rispetto alla quale la persona deve imparare nuovi modo di vivere. Non esistono ricette, se agiamo secondo una prospettica clinica tradizionale “siamo attratti/e dalla semplificazione, entriamo nel problema dell’Altro con l’atteggiamento mentale dl riparare e “curare” ciò che non va, di essere NOI in toto artefici delle cure quando è anche e sopratutto l’individuo, opportunamente supportato e in determinate circostanze, a curare se stesso. Dovremmo quindi imparare a vederci non solo come coloro che sanano o “erogano servizi” ma anche come colui/colei che con la qualità della propria persona e con la propria intenzionalità metodologica, può fungere da stimolatore di risorse nuove, agendo da catalizzatore di interscambi di risorse umane nei circuiti delle reti sociali (formali e informali) della comunità”.
E se queste risorse non ci sono, già pronte, dice ancora Folgheraiter, possiamo accendere delle scintille nelle relazioni.
Il fuoco che ne nascerà ci scalderà tutti
se il blog è nato per lo più per confrontarti con i tuoi colleghi, o sono io incapace di leggere i commenti, oppure i tuoi colleghi sono latitanti.questo però è già un’indicazione chiara sia della tua volontà ferrea a cercare di cambiare le cose, sia dell’accettazione da parte dei più della situazione.per quanto riguarda il sito e il problema dell’accessibilità, penso che sia fondamentale. potresti dirci quanto costerebbe adattarlo a chi ha problemi di lettura? o scrittura? per esempio scrittura 16, spazi ampi, testi semplici e chiari…non so cosa altro, ma potremmo partecipare tutti con un contributo a tale progetto.
La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu
Ho avuto il piacere di seguirti in un corso tenuto da te e su questo punto, come ben sai, non sono così d’accordo.
Questa richiesta di maggior concretezza o di necessità di strumenti “tangibili” non credo celi sempre (come sembri essere convinta tu) una scarsità di sicurezza o di fondamenti teorici del proprio operato.
Credo nasca anche dalla necessità di operare cmq in un contesto socio-culturale che, volenti o nolenti, è ancora esclusivamente aderente al modello medico.
Io CREDO nel cambiamento del sistema, e credo sia necessario operare affinchè questo avvenga, un passo per volta.
Credo altresì che per iniziare a farlo, nel sistema ci si debba impastare ben bene.
Questo non vuol dire, secondo me, essere in continua opposizione a quest’ultimo, perchè alla fine si sa.. si rischia di fare la parte di quelle che sono talmente ancorate alle loro posizioni così poco comprensibili al mondo altro (e intendo medici e altre figure simili) da non riuscire ad impostare un rapporto di fiducia (con in colleghi in prima battuta) NECESSARIO per operare un cambiamento. INoltre, si rischia di passare per quelle che vogliono fare le eroine ma che, rimaste sole, non riescono neanche a far comprendere il loro messaggio così tanto importante.
Nel modello medico noi operiamo e da lì dentro dobbiamo partire per iniziare a cambiare le cose.
E per farlo dobbiamo utilizzare un linguaggio comprensibile, accessibile e condivisibile.
Ora,
se posso comprendere cosa tu dici quando chiedi “non bastano come strumenti la propria osservazione partecipata per comprendere quello che succede e di cosa avrebbe bisogno il proprio paziente?”
ti rispondo che se fossimo monadi isolate e se fossimo sufficienti noi per cambiare le cose, questo ci basterebbe, ma per mantenere una reale collaborazione con i colleghi, in questo momento storico (poi chissà, forse le cose col tempo cambieranno) SI, abbiamo bisogno di qualcosa che sia “tangibile”, condivisibile e da loro riconosciuto come qualcosa di meno “soggettivo” e quindi meno legato al nostro semplice essere esperti nella materia. E tutto questo lo dobbiamo fare perchè da soli non andiamo proprio da nessuna parte.
Sono fermamente convinta che soprattutto in un lavoro come il nostro, l’obiettivo finale (che tu espliciti benissimo) sia raggiungibile solo se condiviso con i colleghi (intendendo in particolare quelli con una professionalità diversa dalla nostra ma con i quali dobbiamo creare un linguaggio comune).
Secondariamente,come già ho avuto modo di dirti durante il corso, non tutti possono e/o vogliono occuparsi in modo esclusivo di questo argomento ed allora tutto ciò che attiene all’esperienza o anche (perchè no?) all’indole personale magari viene a mancare e lo strumento/cassetta degli attrezzi può venire in aiuto in una situazione di difficoltà che esiste senza necessariamente doversi sentire in colpa perchè la propria solidità teorica vacilla un pò…
Credo quindi che in questa fase della riabilitazione lo strumento, anche non validato e senza numerini, ma condiviso con il sistema in cui operiamo possa venire incontro a queste necessità.
INoltre, ci sarebbe anche la questione del paziente stesso. Anche lui, come i professionisti, è immerso in un modello medico da sempre ed è legittimo che la sua richiesta di “normalizzazione” vada accolta e ragionata con il suo linguaggio, così da renderla comprensibile e condivisa. E non condurlo nel nostro intervento come se dovesse essere un atto di fede “dall’alto della nostra preparazione teorica e/o metodologica”
Ma questo apre un altro mondo ancora di considerazioni…. .
Ringraziandoti sempre per gli spunti che offri, a presto
Mah, che ti devo dire? Io sola non mi sento mai nei posti in cui lavoro, Intendo dire nelle corsie, ospedali, centri di riab o case di riposo…avere un linguaggio comprensibile e accessibile è proprio ciò che secondo me fa la differenza. Giorgio Bert, mi vien sempre in mente in questi frangenti, diceva che nel modello medico vengono tagliati fuori dal campo di indagine tutti gli aspetti relazionali, per concentrarsi sui singoli fenomeni, nella convinzione che la somma di questi fenomeni permetta un giorno di capire la totalità, e che le scarse metodologie accreditate come scientifiche permettano di studiare i fenomeni stessi. Io non credo che sia da inventare un nuovo linguaggio, credo sia solo da de-costruire la falsa convinzione che il linguaggio della persona sia un meccanismo rotto da aggiustare e che noi siamo li’ per questo. Capisco che, durante il giro con il primario, al letto di un paziente non si possa dire che “Il trattamento passa dalla categoria della guarigione a quella del senso” ma neanche far passare il nostro intervento come qualcosa di diverso da questo. Poi certo, le risorse e gli strumenti, dipendono dal percorso individuale. Ci sono persone che fanno questo lavoro senza chiedersi mai quale dei loro atti è atto terapeutico e cosa significa essere agente di cambiamento, e altri che – di fronte a compiti per cui non sono attrezzati – si mettono a studiare rinunciando ad altre cose, sta alla coscienza individuale. Pero’ su un punto sono rigida, la solidità teorica se vacilla, non è solidità…e questo per me un problema molto italiano. Ovviamente mi piacerebbe essere sbugiardata
Comunque Cara Fulvia, so di non avere risposto alle tue domande, e spero che ne riparleremo; nel frattempo ti lascio due frasi su cui meditare insieme, se lo vorrai:
“An evaluation is never scientific enough for the losers, or practical enough for the users”,John Ovreveit 1998
“We must avoid making what is measurable important, and find ways to make the important measurable”, Robert MacNamara