Insisto. L’agire per la “cura dell’altro” è tanto più naturale quanto più è sostenuto tecnicamente. Mi spiego. In qualità di educatore sono capace di spontaneità, e dunque di incisività, quanto più questa mia azione è in realtà tecnicamente sostenuta. Come sostiene Massa, si tratta di un problema di disposizione o di atteggiamento; questi non sono di per sé sufficienti, perché se non ho pratiche specifiche il mio atteggiamento non è sufficiente, così come posso imparare tutte le pratiche, le tecniche della comunicazione interpersonale, ma se il mio atteggiamento non è coerente con queste pratiche, le utilizzerò male. Serve qualcosa che rimetta insieme il momento tecnico, il paradigma tecnologico, con quello psicologico, soggettivo-personale.
E’ il modello clinico di cui parla Massa, un paradigma pedagogico che vuole indurre capacità tecniche all’interno di una disposizione soggettiva e di un processo di rielaborazione soggettiva. Per questo penso non sia sufficiente darci una formazione solo morale, di valori, intrisa di psicologismo e di soggettivismo.
Certo possiamo “parteciparci” i fatti e confrontarci sulle quote di dolore, comprensione che ciascuno di noi puo’ capire, accogliere e ridurre, possiamo anche discettare per ore su quanto la vita ci chieda arte e serendipità ma se vogliamo davvero trasformare questo spazio partecipato in qualcosa di sensato dobbiamo portare ciascuno il proprio contributo rispetto ad un processo di elaborazione culturale, emotiva e cognitiva, quale quello che in Italia non si è MAI realizzato in ambito afasiologico.
Sento molto l’esigenza di un “momento tecnico interno” di approfondimento come operatrice. All’interno dei percorsi di rielaborazione personale che ciascuno di noi vorra condividere, sarà a questo punto possibile mettere in discussione i reciproci modelli mentali.
Certo non è possibile uscire da modelli relativi e parziali, non esiste un punto di vista assoluto, è però possibile lavorare sulle proprie disposizioni mentali, relativizzare i propri modelli di riferimento, elaborare le strutture cognitive attraverso cui interpretiamo (Massa).
Cosa vuol dire ad esempio “l’arteterapia di derivazione Gestaltica”? Cosa è un approccio integrativo? Cosa accade nei gruppi a Genova, a Vicenza, a Pisa, a Torino, ad Aqui Terme, ad Arquata, a Settimo, a Bergamo (cito i primi che mi vengono in mente perche’ a me noti) dal punto di vista dei processi che si realizzano? Quali sono i riferimenti metodologici? Come stabiliamo l’ingresso dei partecipanti? Come garantiamo il rispetto del diritto alla adesione informata e concordata al processo terapeutico? Che tipi di contratto stipuliamo all’interno del gruppo? Come introduciamo il nostro ruolo?
Perche’ non cominciamo a disvelarci noi per primi/e su ciò che caratterizza i nostri spazi di intervento? Perche’ lasciare sempre questo mistero su un mondo che è reale, su incontri che si ripetono e si possono raccontare, al di la’ delle parole pass-partout?
Per vivere una prassi, non abbiamo bisogno di approssimarci con qualche elemento anche sulla teoria che è alla base di quella prassi? Altrimenti siamo nei discorsi da salotto del tipo “all’opera d’arte ci si accosta con immediatezza e senza mediazioni” (per me quest’ultima, per altro, è una fola tremenda…voi potreste accostarvi senza particolari mediazioni giusto ad una mia opera creativa che non ha storia dietro di se’ e anche accoglierla con affetto ma come cogliere il senso di una vera opera d’arte senza criteri che facilitino l’orientamento e il discernimento?) dimenticando il fatto che quando siamo nel bel mezzo di una relazione d’aiuto, siamo nel bel mezzo di una relazione d’aiuto e non altrove.
Dunque, come operatori della relazione d’aiuto abbiamo il dovere di possedere degli strumenti, prima di tutto di lettura della realtà che contribuiamo a definire (strumenti epistemologici). E’ su questi che possiamo cominciare a discutere tra noi.
Le storie di afasia invece prenderanno corpo da se’…raccontate dai legittimi protagonisti.
Per questi motivi, invito coloro, tra gli operatori che hanno manifestato il desiderio di riprendere i discorsi iniziati a Pisa, a fare mente locale sui propri riferimenti teorici e a condividerli se credono, mettendoli nero su bianco, si intende.
Anche per coloro che si dichiarano aperti alla discussione e al confronto e sostengono di avere rinunciato volentieri a ruoli direttivi nel loro lavoro come operatori della relazione d’aiuto, sarà comunque scabroso disvelarsi a questo livello ma come dice Olimpia “abbiamo consapevolezza del tempo che passa, di quello che si spreca (…), del tempo enorme che ci vuole per prendersi cura della persona che te lo chiede”.
Non è facile uscire allo scoperto ma è doveroso.