In un sabato di giugno mi è capitato di vivere una morte dolcissima. No, non è capitato. Le cose belle raramente capitano così, per pura fortuna o coincidenza. Soprattutto una cosa così importante come il delicato viaggio che ci porta via dal mondo. Per una operatrice del mondo della cura quale io sono, che vede passare tante persone ogni mese, nei modi più disparati e spesso disperati, è inevitabile chiedersi cosa faccia la differenza. Cosa ci permetta di morire bene e far morire bene chi amiamo ma anche chi conosciamo solo in quel momento, per la prima volta.
E allora questa storia diventa paradigmatica di un’esperienza felice. Non solo nella sua fase finale ma nella sua intera e lenta evoluzione….
Per salvaguardare la qualità di vita di Elsa, che aveva una demenza multinfartuale, negli ultimi sette anni sono state messe in campo moltissime risorse. E una tonnellata di altre risorse sono servite a garantirle una morte serana. Vale la pena raccontare, accade raramente, ma meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Senza pensare agli Hospice, in cui tutto è fatto perchè così accada (ma sono ancora troppo poche le città italiane che li hanno) ma anche nelle Case di Riposo per Anziani che vengono descritte spesso come lager , purtroppo a ragione talvolta, o come istituzioni totali dalle quali essere terrorizzati. Non è sempre così, ed è importante capire nelle situazioni in cui non è così, che cosa fa davvero la differenza
Nel caso di Elsa ho potuto vivere tutto da vicino e dunque sono testimone. Ho visto mettere in campo per sette anni: forze positive, di amore di figlie, nipoti, cognati, amici e amiche, personale assistenziale e infermieristico che con il tempo è diventato una seconda famiglia per Elsa, e per tutti noi.
Ho visto le incertezze di chi sapendo di non poter più fornire alla propria madre una sicurezza in casa, ha dovuto non senza mille patemi – durati mesi e mesi – affidarla a persone fino ad allora sconosciute, mentre il mondo di fuori ti dice “devi fare tutto da solo/a“, che “un bravo figlio/a non sposta suo padre o sua madre per liberarsi da un problema“.
Proprio quando Elsa entrava nella Residenza Sanitaria dove sarebbe morta cinque anni dopo, circondata da mille gesti di tenerezza (non una persona fra gli operatori ha mostrato, in questi anni, un gesto brusco, di sgarbo, e mano a mano che si avvicinava la fine i gesti divenivano piu’ delicati e le voci piu’ dolci e basse), e anche nei successivi anni leggevo articoli che magnificavano la casa come unico luogo in cui poter morire serenamente. Mi viene in mente un articolo del 2011 in cui il cardinale Angelo Bagnasco dichiarava ”Sono stati dieci anni di grazia, quando ho potuto tenere in casa la mia mamma malata, grazie alla vicinanza della mia parrocchia, un grande dono, l’esperienza piu’ grande della mia vita...” E aggiungeva “la dedizione nei confronti dei malati e’ il sale della vita, il criterio fondamentale per misurare l’umanita’ di una collettivita’ e’ la capacita’ di stare accanto ai malati”. E io mi chiedevo a quali situazioni di malattia e a quali comunità facesse riferimento dal momento che una demenza progressiva crea all’interno di un nucleo familiare uno sconquasso tale che difficilmente il domicilio può rimanere un luogo sicuro per la persona malata prima di tutto e per coloro che le vivono accanto per le quali magari non esiste più giorno, ne’ notte, nè muscoli integri della schiena, nè momenti di lavoro che non siano continuamente connotati dal terrore di quanto sta accadendo là, in casa, di corse frenetiche per raggiungere la propria madre o il proprio padre che si rifiuta di prendere la medicina, che urla, che è caduto/a, che non vuole mangiare, o che semplicemente e tristemente piange senza interruzione.
Mi chiedevo a quale comunità facesse riferimento dal momento che nella mia quotidianità professionale vedo ogni giorno ricoverare anziani provenienti dal domicilio denutriti, piagati, e non si tratta sempre di persone sole.
Elsa ha avuto il suo periodo a casa, con più persone che si avvicendavano ad assisterla e con i parenti sempre presenti, ma nulla di quanto si potesse fare la rendeva tranquilla. La casa, peraltro, rimane il luogo romantico che ci fa stare bene, quando la riconosciamo, quando interagiamo con i nostri oggetti che ci ricordano esperienze, quando ogni stanza è piena di storie. Ma quando il mondo diventa molto più confuso e ogni luogo sconosciuto, mi sembra di aver capito che si hanno nuovi bisogni, diversi. Si ha bisogno di volti familiari, anche se non hai idea a chi appartengano e non sapresti dirlo ma i nomi hanno perso l’importanza che avevano nella tua vita precedente, volti sorridenti che si avvicinano e ti coprono se hai freddo, ti fanno mangiare con gusto le cose che piu’ ti piacciono (i gelati portati da fuori, il gusto del caffè….) e vigilano che tu non metta in bocca cose che non sono cibi ma a te lo sembrano, e dunque ti proteggono.
Ecco, la protezione. Che non è mai priva di tenerezza e dolcezza. Che è fatta di corpi e odori.
Il giorno che Elsa se ne è andata, un paio d’ore prima, mentre le operatrici la rinfrescavano, eravamo in attesa fuori dalla porta, nel salone e da un’altra signora ospite dell’istituto, con la quale abbiamo ballato un valzer lento accompagnate dalla fisarmonica di un’altro ospite, ho imparato che la protezione è qualcosa di fisico.
La signora veniva a turno da tutte noi per essere abbracciata, poi facevamo due passi di danza e quindi lei ricominciava a tendere le braccia sorridendo perché la cingessimo.
E con la testa appoggiata sulla spalla di una di noi ha detto sorridendo “Odore di protezione!” e io ho capito cosa era successo in questi sette anni e cosa stava avendo il suo culmine in quel sabato di giugno.
Tutti noi, ma per prime le figlie e la famiglia, avevamo provato a proteggere una di noi, fino alla fine, perchè si può fare. E l’hanno protetta i medici della Struttura, le infermiere e gli infermieri, le operatrici che avevano il delicato compito di prendersi cura del suo corpo e la persona che con dedizione le ha fatto compagnia quando le figlie non potevano essere presenti.
Ecco a cosa si può ambire, ad essere protetti, portati serenamente verso una morte fatta di carezze, baci sulla fronte, musiche fatte sentire all’ultimo per lasciarti andare tranquillamente, una finestra aperta e un raggio di sole che invade il letto e l’ultimo respiro fra sorrisi inteneriti.
E dietro le nostre spalle, la memoria e il ricordo delle tante persone che avevano costruito un pezzo di quel cammino, con in testa le due figlie – sempre vigili, mai approssimative – per tanti anni.
Quando le ho viste abbracciarsi serene, ho immaginato che dietro di loro ci fossero decine di persone che avevano consentito di arrivare a tutto ciò.
Me compresa, persa in mezzo ad una comunità che, almeno questa volta, si è presa cura di sé.
_____________________________________________________
Non a caso, questo è il discorso preparato dalle figlie per la cerimonia funebre:
“Oggi vogliamo ricordare le cose belle successe in questi sette anni. Sono state tante.
La demenza, di qualsiasi tipo, è spesso descritta in termini tragici e negativi, ma noi sappiamo che ci sono momenti anche molto belli, che permettono di provare emozioni e sensazioni forti e positive, così come talvolta, ci sono momenti in cui si ride tanto, di sorpresa e di tenerezza.In questi lunghi anni, mia madre Elsa, mia sorella Paola e io, abbiamo incontrato persone che hanno saputo stare al nostro fianco in modo splendido, e riscoperto altri, che avevamo già vicini, come familiari o amici. Ora non ci sarebbe il tempo ora di ricordare tutti, ma io e Paola vogliamo citare almeno alcune persone. Prima di tutto, il personale della residenza Le Cappuccine, in cui Elsa ha vissuto per cinque anni. Sono sempre stati tutti molto professionali e competenti, ma questo del resto è ciò che ci si aspetta dal personale di una casa di riposo e non avremmo certamente mai lasciato nostra madre in un posto in cui fossero mancate professionalità e competenza. Ma le donne e gli uomini che hanno fatto con noi questo percorso hanno mostrato molto di più. Affetto e dolcezza, solidarietà, e soprattutto le loro emozioni e i loro sentimenti. Abbiamo visto tanta cordialità, simpatia, affetto, ci sono state tante risate e negli ultimi giorni, anche qualche lacrima e, credetemi, questo è stato molto importante per tutte noi. Quando ho detto al coordinatore della struttura che in questi anni la residenza era diventata, per noi, la casa della mamma e il personale una grande famiglia, non era un modo di dire. Luciana, lei è stata un incontro fortunato e felice, per la mamma e per noi. E’ stato avere accanto una terza sorella, quando sapevamo che lei era con la mamma, sia io sia Paola provavamo la stessa tranquillità che provavamo quando c’era una di noi due. Non riusciremo mai ad esprimerle la gratitudine e l’affetto che proviamo per lei. Nostro zio Pino, il cognato della mamma, è stato capace di un affetto e una tenerezza per noi inaspettati. Grazie per tutte le visite, i cioccolatini, le chiacchiere. Non a caso uno degli ultimi nomi che la mamma ha continuato a pronunciare è stato il tuo. Alessandra ci sei stata vicina lungo tutto il percorso, aiutandoci a capire come vivere questa esperienza e come farla vivere al meglio, per quanto possibile, anche ad Elsa. Hai passato con noi gli ultimi giorni e sei stata con noi, e con la mamma, fino alla fine, fino all’ultimo respiro e anche dopo. Grazia, negli ultimi anni hai nutrito il nostro spirito e, negli ultimi giorni, hai anche rifocillato i nostri corpi. Grazie, sei dolcissima. E poi ci sono le amiche e gli amici, i parenti, i colleghi e le colleghe che in questi anni ci hanno chiesto informazioni, mostrando in modi diversi ma tutti graditissimi, il loro sostegno e la loro partecipazione. Infine io voglio esprimere pubblicamente la mia profonda stima e il mio rispetto per le mie due nipoti, Silvia e Annalisa, che sono ancora molto giovani, e che erano ancora due ragazzine quando questo percorso è iniziato, tanti anni fa. Sono state forti e coraggiose e hanno saputo “stare” di fronte a ciò che man mano accadeva, alla perdita, al vuoto, all’assenza, al silenzio, all’immobilità. Portando, con la loro vitalità, una ventata di freschezza in tanti momenti e dimostrando di saper vivere prove difficili in modo adulto. A marzo il papa nella messa di inaugurazione del pontificato ha esortato a non aver paura della tenerezza. Mi sento di dire che se c’è una cosa che non ci siamo fatti mancare, in questi anni, con Elsa e con tutti voi, è stata davvero la tenerezza. Grazie a tutti voi che siete qui e a coloro che pur non potendo essere presenti ci hanno manifestato il loro affetto”
Partenze serene
'