Dopo un periodo di grande fascinazione (quando studiamo il cervello ci sentiamo tanti piccoli Sacks) ora guardo con perplessità al mondo delle Neuroscienze enfatizzato sui giornali e le riviste, il cui paradigma rischia di identificare l’essere umano con le sue funzioni e prestazioni biologiche riducendolo alla sua sostanza naturale. Io temo la medicina della oggettivazione, chi entra nella stanza del paziente cercando la macchina biologica, da aggiustare quando si guasta e abbandonare se inservibile, chi vede l’Altro come oggetto di conoscenza e lo studia e ristudia con grande attenzione ma poi lo guarda senza partecipazione emotiva perché così è “professionale”, temo chi lavora nel mondo della salute pensando davvero di poter evitare di confrontarsi con i problemi radicali della libertà e del senso della vita, con la loro crisi e con la loro sopravvivenza. Temo chi vede con sospetto o ritiene superfluo il “dialogo” con il paziente “sulla” malattia e così facendo rifiuta di confrontarsi con la fenomenologia liquida della sua interiorità e delle sue esperienze, rifiuta di entrare in un dialogo interpersonale per i motivi più vari (non è affar mio, non sono preparato/a, etc.etc).
A questo punto, per parafrasare Borgna (Le intermittenze del cuore, Feltrinelli), se ci identifichiamo clinicamente nella neurologia e fondazionalmente nella neuropsicologia, non c’è più bisogno di dialogo e colloquio, di comunicazione. Lasciamo che il paziente cicatrizzi le ferite della sua anima (?) da solo o con chi “se ne capisce” (diciamo a genova), raggeliamo la sensibilità e le fragilità che sono in noi. Oppure prendiamone atto, facciamocene carico. Ti capita di piangere di fronte ad un paziente con una storia particolarmente dolorosa? Cosa ne fai dei tuoi lucciconi? Vai dal neurologo e ti fai prescrivere un antidepressivo? Ti metti in terapia? Cerchi una supervisione che ti aiuti a capire meglio quelle lacrime e come gestirle? Io, lavorando da tanti anni, ho fatto tutte queste cose, in tempi diversi: ho chiesto un aiuto farmacologico quando mi sono scoperta fragile di fronte all’umano più fragile di me, mi sono pagata una supervisione clinica e da qualche anno, seguo una terapia individuale.
Viviamo tempi in cui si cancellano farmacologicamente le emozioni e come operatori dobbiamo presidiare la nostra tendenza malsana a cancellare non solo le nostre ma anche le emozioni dei nostri pazienti. E’ come se si pensasse davvero di poter vivere in una condizione emozionale standard. Ora, io non so se lavorando in banca si è soggetti a particolari stress, immagino di sì, ma certamente so che nel mio lavoro ogni giorno ti trovi immersa in stati d’animo che nascono dalle contraddizioni e dalle ferite della vita. Quella che, sempre Borgna, definisce “la fatica di vivere che ci fa pensare e ci mette in relazione con la sofferenza degli altri-da-noi e con la nostra sofferenza”.
Qui si entra in un nodo critico della mia Professione. Siamo terapisti o terapeuti, svolgiamo un mansionario abbandonati al nostro buon senso e alla nostra umanità o siamo dei Professionisti della Relazione d’aiuto, capaci di gestire la complessità insita nel mondo della malattia?
Posto che neanche il tecnico che mi appoggia la macchina degli ultrasuoni sulla schiena e torna dopo 20 minuti, è legittimato a fregarsene di come sto “in quel momento” che mi ha in carico, è pur vero che essere operatori della Relazione d’aiuto è qualcosa di più complesso e coinvolgente. O almeno, dovrebbe esserlo. Ed è proprio su questo tema delle emozioni che si radicalizzano le differenze fra noi colleghe. Io credo in una Logopedia che non esaurisce la sua ragione d’essere nello studio degli eventi dal punto di vista biologico (forte della convinzione moderna secondo cui gli eventi che accadono nel paziente sono tutti eventi neuronali) ma recupera davvero il suo legame con il Logos, in particolare con “il linguaggio della quotidianità, rinunciando nei limiti del possibile, a imprigionare le sue intuizioni, le sue descrizioni, le sue analisi in aride formule cliniche: che non consentono di capire molto dei fenomeni di sofferenza e di disperazione, angoscia e di tristezza” (ibidem) che connotano la vita dei nostri pazienti.
Rileggo i miei referti, le mie consulenze nel diario clinico e a volte ci vedo “gergalità e ghiacciata indifferenza” e so che è inevitabile, devi comunicare con termini precisi e dare indicazioni di cui poi eventualmente risponderai, con un rigore che è fondamentale quando si tratta di problematiche davvero di interesse sanitario come ad esempio la disfagia. Ma quando si parla di programma riabilitativo, di supporto all’esistenza per quel determinato “soggetto” (bellissima parola che qui pare brutta), in quel momento devo sforzarmi di evitare il linguaggio asettico della clinica tradizionale, il cui unico scopo è garantirmi la lontananza dalla sofferenze del mio paziente.
Da anni mi chiedo chi siamo, noi logopediste italiane. In Nord America ci sono un sacco di figure che gravitano intorno alla persona con afasia, assistenti alla comunicazione, terapisti del linguaggio, peer, specialisti della patologia del linguaggio, volontari…noi invece siamo UNA.
Una sola persona che raccoglie in sè – potenzialmente – tutti i ruoli e tutte le responsabilità. Legittimo sentirsi confusi. C’è chi ritiene di poter arrivare a un certo punto, dentro la tecnica ma non oltre, e chi sente invece di avere sufficiente confidenza con il modello della complessità per fare un lungo viaggio verso il “dotarsi degli strumenti per…” sapendo che nel frattempo continuerà a incontrare esseri umane le cui storie non potrà risolvere, arginare, guarire ma in qualche modo fiancheggiare con dignità e massimo sforzo, e ha la disponibilità per farlo.
Quest’ultima figura va incontro ad ogni dialogo sapendo che è temerario ma non terribile. “Il volto dell’Altro, segnato dalla sofferenza, brucia (cancella) le maschere che portiamo sui nostri volti” (ibidem), per questo abbiamo tanto timore di incontrarlo, è il timore di confrontarci, anche solo per un attimo, con tutto ciò che ci fa paura”.
Borgna ci ha accompagnato in questo post e lui concluderà dicendo che “gli specchi, che sono gli occhi dei pazienti, e in essi si riflettono i nostri volti, ci inducono a fuggire: ad allontanarci e a rimuoverli. Sono specchi che vorremmo cancellare e infrangere”, lui si riferisce a specchi che ci rimandano l’immagine della follia dalla quale temiamo di essere contagiati o nella quale temiamo di riconoscerci, ma io credo si possa fare lo stesso discorso verso l’afasia come condizione di vita. Qualcosa che il più delle volte occuperà la vita del nostro paziente per sempre, ma sta anche a noi fare in modo che non ne sia il centro.
Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono sempre tutto così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là è la fine!
E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian tutto ciò che fu e che sarà;
non c’è montagna che li meravigli;
le loro terre e giardini confinano con Dio!
Vorrei ammonirli, fermarli; state lontani!
A Me piace sentire le cose cantare!
Voi le toccate diventano rigide e mute!
Voi mi uccidete le cose!
Rainer Marie Rilke